"Qualcuno con cui parlare. Israeliani e palestinesi"
Questo libro intende dare voce a tutti coloro che non si riconoscono nello scontro fra opposti fondamentalismi. Il riferimento immediato è al rapporto fra palestinesi e israeliani che da decenni insanguina il Medio Oriente. Ma la voce di Francesca Borri non è in alcun modo un’esortazione alla neutralità, all’estraneità dal conflitto né, tanto meno, fa appello a una sorta di pacifismo moralistico.
Chi conosce l’autrice di questo libro sa che pochi come lei si sono battuti in questi anni, in Italia e in Medio Oriente, a favore della causa palestinese, vivendo spesso in Palestina, impegnata in attività a volte molto rischiose. Capita a volte che Francesca Borri usi l’espressione 'noi palestinesi' pur essendo di puro sangue italiano.
E allora che senso ha questo libro singolare, vivace e stimolante, composto di una serie di dialoghi di struttura molto diversa l’uno dall’altro, nei quali l’umanità israelo-palestinese esprime le sofferenze, le angosce, le speranze di due popoli straziati dall’odio, dalla violenza, dallo scorrimento del sangue? Quale contributo offrono complessivamente i dialoghi che coinvolgono personaggi di alto livello come, fra i molti altri, Marwan Barghouti, Michel Warschawski, Mustafa Barghouthi, Yehuda Shaul, Mariam Saleh?
In una delle interviste più toccanti Francesca Borri mette a confronto Nurit Peled e Bassam Aramin. Nurit è un’insegnante israeliana che ha perso una figlia di tredici anni, uccisa da un attacco suicida palestinese. Bassam è un combattente palestinese la cui figlia di nove anni è stata uccisa all’uscita da scuola da un proiettile sparatole alla nuca a quattro metri di distanza da una pattuglia della polizia di frontiera. Nurit e Bassam sono due vecchi amici che si rispettano, si aiutano a vicenda, si parlano cordialmente, mescolando d’istinto l’arabo e l’ebraico. Sono nati a pochi chilometri di distanza in due mondi lontani e nemici.
Il titolo dell’intervista è lo stesso del libro: “Qualcuno con cui parlare”. Il senso è chiaro: condannare l’Olocausto ma anche la continua strage di palestinesi da parte dei sionisti israeliani, difendere l’integrità degli ebrei ma riconoscere che il popolo palestinese non è libero ma oppresso e violentato. Occorre dimenticare, perdonare, non vendicarsi, pensare ad un futuro di pace che sia comune ai due popoli e restituisca identità e dignità a quello palestinese.
Il dialogo fra Nurit e Bassam esprime il senso profondo di questo libro e offre la chiave di lettura dell’intero volume, ricchissimo di riferimenti preziosi ed emozionanti, anche se, talora, di lettura un po’ faticosa. La tesi centrale è l’assunzione che la tragedia palestinese potrà risolversi soltanto se verrà affrontata come questione mediterranea. Non è un caso che in questo libro si citi spesso Martin Buber e si faccia riferimento implicito alle tesi di Edward Said.
Come è noto, Buber era considerato il padre spirituale del nuovo stato ebraico, nonostante fosse un critico di molti aspetti dell’ideologia sionista. Egli sosteneva che il ritorno del popolo ebraico nella ‘terra promessa’ non doveva portare alla costruzione di uno stato etnico-religioso riservato ai soli ebrei. Per Buber, e per un ristretto ma importante gruppo di pensatori ebrei, fra i quali Hannah Arendt e Judah Magnes, la patria ebraica doveva essere uno spazio aperto anche al popolo palestinese. La convivenza pacifica fra ebrei e arabi non si sarebbe mai ottenuta creando uno stato confessionale che costringesse i nativi ad abbandonare le loro terre o li includesse in una posizione subordinata e neppure attraverso la formazione di due stati, uno ebraico e uno islamico. Per raggiungere questa meta occorreva che gli ebrei emigrati in terra palestinese si sentissero semiti fra i semiti e non i rappresentanti di una cultura diversa e di una civiltà superiore, secondo i moduli del colonialismo europeo. E questo non poteva che significare, anzitutto, come auspicava Martin Buber, l’abbandono del carattere etnocratico dello stato israeliano, la sua piena secolarizzazione e democratizzazione.
Dal libro di Francesca Borri emerge l’idea che oggi non è più possibile la formazione di uno stato palestinese. Auspicarlo è patetica illusione, nonostante il suo grande valore simbolico, le giuste aspettative della maggioranza dei palestinesi e il suo pieno fondamento nel diritto internazionale. Gli effetti della discriminazione etnica sono ormai irreversibili: mai uno stato palestinese degno del nome sorgerà sulle rovine di Gaza e della Cisgiordania. La sola prospettiva, molto problematica ma senza alternative, è quella di uno stato israelo-palestinese ‘post-sionista’, laico ed egualitario, che riconosca eguali diritti a tutti i suoi cittadini. Per quanto la prospettiva non possa che essere di lungo periodo, forse sarebbe saggio pensare già oggi ad un movimento politico pluralista entro il quale tutte le comunità palestinesi, compresi gli ‘arabi israeliani' e i profughi in diaspora nei paesi arabi, godano del giusto riconoscimento.
Questa prospettiva è sostenuta, esplicitamente o implicitamente, dai molti interlocutori del libro di Francesca Borri. E la serietà e la concretezza di questa progetto 'non fondamentalista' era già stata confermata da Edward Said, forse il più lucido pensatore palestinese del secolo scorso. Tra il 1997 e il 2000 aveva scritto:
L’esperienza degli ebrei e quella dei palestinesi sono storicamente, anzi organicamente, connesse: separarle equivale a falsificare ciò che ciascuna di esse ha di autentico. Per quanto difficile possa essere, dobbiamo pensare assieme alle nostre storie, se vogliamo che ci sia un futuro comune. E tale futuro deve includere, gli uni accanto agli altri, arabi ed ebrei, senza esclusioni, senza schemi basati sul diniego e mirati a lasciar fuori l’una o l’altra parte, teoricamente o politicamente. La vera sfida è questa […] L’autodeterminazione palestinese in uno Stato a sé stante è impraticabile, così come è impraticabile il principio di una separazione tra la popolazione araba e la popolazione israeliana, demograficamente miste e interconnesse come sono, sia in Israele che nei territori occupati.
Per ritrovare pace e sicurezza il popolo israeliano dovrebbe in qualche modo accettare di diventare un popolo mediterraneo, cessando di essere una propaggine delle potenze atlantiche nel cuore della Mezzaluna fertile. Solo allora gli ebrei che oggi vivono in Israele potrebbero chiedere con successo ai palestinesi e al mondo arabo di essere accettati e riconosciuti. Solo allora i muri potranno cadere e liberare entrambi i popoli dall’odio e dalla paura. Prigionieri di un destino infelice sono i palestinesi, ma lo sono anche gli israeliani.
Di questa duplice realtà Francesca Borri è pienamente consapevole e le molte voci che si levano dal suo libro offrono la prova del buon fondamento delle sue aspettative 'anti-fondamentaliste'.
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Sommario: 1. L’ennesima legge apartheid israeliana. – 2. “Questo è pericoloso per gli ebrei: molto pericoloso”. –
1. L’ennesima legge apartheid israeliana. – È costante l’accusa rivolta ad Israele di praticare l’apartheid. Naturalmente questa accusa è sempre respinta dalla propaganda israeliane, che nega vi sia in Israele l’apartheid per il quale si rese tristemente celebre il Sudafrica. Paradossalmente possiamo essere d’accordo, ma solo nel senso che in Israele vige qualcosa di assai più grave di ciò che è stato l’apartheid sudafricano. Ne abbiamo argomentato altrove ed avremo occasione di ritornare sul tema. Qui rinviamo alle puntualizzazione che Ilan Pappe offre con piena cognizione di ciò che ancora di recente accade in Israele sul piano del “diritto”, di un ben strano diritto, che fa ben capire come la legislazione positiva possa assumere connotati in netto contrasto con quel diritto naturale che nel secondo dopoguerra è tornato in auge per essere consacrato nelle dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo, fatte apposta tuttavia per essere disattese, con un incremento dell’ipocrisia mai toccato prima. Già il giovane Marx, del resto, criticando le carte costituzionali francesi, osservava come il secondo comma di un articolo finiva per limitare e negare ciò che nel primo era solennemente sancito. Il recente tentativo del ministro Alfano di aggirare il chiaro contenuto degli articoli 21 e 33 della nostra costituzione si colloca in questo ambito, ubbidendo a pressanti sollecitazioni della “Israel lobby”, che teme più della morte la libertà di pensiero e di espressione.
2. “Questo è pericoloso per gli ebrei: molto pericoloso”. – L’articolo di Pappe analizza la visione che Israele può avere di ciò che sta succedendo e non è ancora concluso nel Nord Africa e nel Medio Oriente: per Israele «se hanno davvero successo, ler rivolte tunisine ed egiziane, sono pericolose, molto pericolose». L’articolo tradotto in italiano è stato postato su “Come don Chisciotte” il 18 febbraio scorso. Sono da allora passati oltre due mesi, rispetto all’articolo originale, ed il quadro si va annebbiando. Il titolo virgolettato corrisponde ad una frase pronunciata dal Zvi Mazael il 28 gennaio e commentata da Ilan Pappe. Sta venendo fuori che Israele – che pretende di essere «l’unica democrazia del Medio Oriente», un leit motiv della propaganda – ha in effetti bisogno di essere circondato da regimi dittatoriali da poter corrompere e con i quali concludere “trattati di pace”: «I trattati di pace con Israele sono i sintomi di una corruzione morale non della malattia stessa - questo è il motivo per cui il Presidente Syriano Bashar Asad, indubbiamente un leader anti-Israeliano, non è immune da quest'onda di cambiamento. No, ciò che è in ballo qui è la pretesa che Israele sia un stabile, civilizzata, occidentale isola in un brutale mare di barbarismo Islamico e fanatismo Arabo. Il "pericolo" per Israele è che la cartografia sarebbe la stessa ma la geografia cambierebbe. Sarebbe ancora un'isola ma di barbarismo e fanatismo in un mare di stati democratici ed egualitari formati recentemente».
Chi conosce l’autrice di questo libro sa che pochi come lei si sono battuti in questi anni, in Italia e in Medio Oriente, a favore della causa palestinese, vivendo spesso in Palestina, impegnata in attività a volte molto rischiose. Capita a volte che Francesca Borri usi l’espressione 'noi palestinesi' pur essendo di puro sangue italiano.
E allora che senso ha questo libro singolare, vivace e stimolante, composto di una serie di dialoghi di struttura molto diversa l’uno dall’altro, nei quali l’umanità israelo-palestinese esprime le sofferenze, le angosce, le speranze di due popoli straziati dall’odio, dalla violenza, dallo scorrimento del sangue? Quale contributo offrono complessivamente i dialoghi che coinvolgono personaggi di alto livello come, fra i molti altri, Marwan Barghouti, Michel Warschawski, Mustafa Barghouthi, Yehuda Shaul, Mariam Saleh?
In una delle interviste più toccanti Francesca Borri mette a confronto Nurit Peled e Bassam Aramin. Nurit è un’insegnante israeliana che ha perso una figlia di tredici anni, uccisa da un attacco suicida palestinese. Bassam è un combattente palestinese la cui figlia di nove anni è stata uccisa all’uscita da scuola da un proiettile sparatole alla nuca a quattro metri di distanza da una pattuglia della polizia di frontiera. Nurit e Bassam sono due vecchi amici che si rispettano, si aiutano a vicenda, si parlano cordialmente, mescolando d’istinto l’arabo e l’ebraico. Sono nati a pochi chilometri di distanza in due mondi lontani e nemici.
Il titolo dell’intervista è lo stesso del libro: “Qualcuno con cui parlare”. Il senso è chiaro: condannare l’Olocausto ma anche la continua strage di palestinesi da parte dei sionisti israeliani, difendere l’integrità degli ebrei ma riconoscere che il popolo palestinese non è libero ma oppresso e violentato. Occorre dimenticare, perdonare, non vendicarsi, pensare ad un futuro di pace che sia comune ai due popoli e restituisca identità e dignità a quello palestinese.
Il dialogo fra Nurit e Bassam esprime il senso profondo di questo libro e offre la chiave di lettura dell’intero volume, ricchissimo di riferimenti preziosi ed emozionanti, anche se, talora, di lettura un po’ faticosa. La tesi centrale è l’assunzione che la tragedia palestinese potrà risolversi soltanto se verrà affrontata come questione mediterranea. Non è un caso che in questo libro si citi spesso Martin Buber e si faccia riferimento implicito alle tesi di Edward Said.
Come è noto, Buber era considerato il padre spirituale del nuovo stato ebraico, nonostante fosse un critico di molti aspetti dell’ideologia sionista. Egli sosteneva che il ritorno del popolo ebraico nella ‘terra promessa’ non doveva portare alla costruzione di uno stato etnico-religioso riservato ai soli ebrei. Per Buber, e per un ristretto ma importante gruppo di pensatori ebrei, fra i quali Hannah Arendt e Judah Magnes, la patria ebraica doveva essere uno spazio aperto anche al popolo palestinese. La convivenza pacifica fra ebrei e arabi non si sarebbe mai ottenuta creando uno stato confessionale che costringesse i nativi ad abbandonare le loro terre o li includesse in una posizione subordinata e neppure attraverso la formazione di due stati, uno ebraico e uno islamico. Per raggiungere questa meta occorreva che gli ebrei emigrati in terra palestinese si sentissero semiti fra i semiti e non i rappresentanti di una cultura diversa e di una civiltà superiore, secondo i moduli del colonialismo europeo. E questo non poteva che significare, anzitutto, come auspicava Martin Buber, l’abbandono del carattere etnocratico dello stato israeliano, la sua piena secolarizzazione e democratizzazione.
Dal libro di Francesca Borri emerge l’idea che oggi non è più possibile la formazione di uno stato palestinese. Auspicarlo è patetica illusione, nonostante il suo grande valore simbolico, le giuste aspettative della maggioranza dei palestinesi e il suo pieno fondamento nel diritto internazionale. Gli effetti della discriminazione etnica sono ormai irreversibili: mai uno stato palestinese degno del nome sorgerà sulle rovine di Gaza e della Cisgiordania. La sola prospettiva, molto problematica ma senza alternative, è quella di uno stato israelo-palestinese ‘post-sionista’, laico ed egualitario, che riconosca eguali diritti a tutti i suoi cittadini. Per quanto la prospettiva non possa che essere di lungo periodo, forse sarebbe saggio pensare già oggi ad un movimento politico pluralista entro il quale tutte le comunità palestinesi, compresi gli ‘arabi israeliani' e i profughi in diaspora nei paesi arabi, godano del giusto riconoscimento.
Questa prospettiva è sostenuta, esplicitamente o implicitamente, dai molti interlocutori del libro di Francesca Borri. E la serietà e la concretezza di questa progetto 'non fondamentalista' era già stata confermata da Edward Said, forse il più lucido pensatore palestinese del secolo scorso. Tra il 1997 e il 2000 aveva scritto:
L’esperienza degli ebrei e quella dei palestinesi sono storicamente, anzi organicamente, connesse: separarle equivale a falsificare ciò che ciascuna di esse ha di autentico. Per quanto difficile possa essere, dobbiamo pensare assieme alle nostre storie, se vogliamo che ci sia un futuro comune. E tale futuro deve includere, gli uni accanto agli altri, arabi ed ebrei, senza esclusioni, senza schemi basati sul diniego e mirati a lasciar fuori l’una o l’altra parte, teoricamente o politicamente. La vera sfida è questa […] L’autodeterminazione palestinese in uno Stato a sé stante è impraticabile, così come è impraticabile il principio di una separazione tra la popolazione araba e la popolazione israeliana, demograficamente miste e interconnesse come sono, sia in Israele che nei territori occupati.
Per ritrovare pace e sicurezza il popolo israeliano dovrebbe in qualche modo accettare di diventare un popolo mediterraneo, cessando di essere una propaggine delle potenze atlantiche nel cuore della Mezzaluna fertile. Solo allora gli ebrei che oggi vivono in Israele potrebbero chiedere con successo ai palestinesi e al mondo arabo di essere accettati e riconosciuti. Solo allora i muri potranno cadere e liberare entrambi i popoli dall’odio e dalla paura. Prigionieri di un destino infelice sono i palestinesi, ma lo sono anche gli israeliani.
Di questa duplice realtà Francesca Borri è pienamente consapevole e le molte voci che si levano dal suo libro offrono la prova del buon fondamento delle sue aspettative 'anti-fondamentaliste'.
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Per dare seguito alla serie iniziata con Gilad Atzmon il primo nome che ci viene in mente è quello di Ilan Pappe, di cui vengono spesso tradotti articoli su “Come don Chisciotte”. Pappe è venuto più volte in Italia per presentare il suo libro sulla “Pulizia etnica della Palestina”. In particolare, è stato a Roma, quando si è tenuto un affollatissimo Seminario sulla guerra “israelo-palestinese”, i cui atti sono stati pubblicati da questo blog. Fu allora che nel dibattito con il pubblico, durante il quale Pappe rispose ad una domanda circa l’equiparazione, in voga, fra antisionismo e antisemitismo, disse che “si deve essere antisionisti se non si vuol essere antisemiti”. Per il suo coraggio e la sua onestà intellettuale, Pappe è stato oggetto di minacce i Israele, dove lavorava e viveva, tanto da costringerlo ad emigrare in Inghilterra, inseguito da una campagna di discredito, il cui punto più alto è stato forse toccato in Germania, dove la locale comunità ebraica gli impedì di parlare, allo stesso modo di come i nazisti, negli anni trenta i nazisti fecero contro suo padre, come ebbe a dire lo stesso Ilan Pappe in una Lettera aperta da noi tradotta e pubblicata.
Sommario: 1. L’ennesima legge apartheid israeliana. – 2. “Questo è pericoloso per gli ebrei: molto pericoloso”. –
1. L’ennesima legge apartheid israeliana. – È costante l’accusa rivolta ad Israele di praticare l’apartheid. Naturalmente questa accusa è sempre respinta dalla propaganda israeliane, che nega vi sia in Israele l’apartheid per il quale si rese tristemente celebre il Sudafrica. Paradossalmente possiamo essere d’accordo, ma solo nel senso che in Israele vige qualcosa di assai più grave di ciò che è stato l’apartheid sudafricano. Ne abbiamo argomentato altrove ed avremo occasione di ritornare sul tema. Qui rinviamo alle puntualizzazione che Ilan Pappe offre con piena cognizione di ciò che ancora di recente accade in Israele sul piano del “diritto”, di un ben strano diritto, che fa ben capire come la legislazione positiva possa assumere connotati in netto contrasto con quel diritto naturale che nel secondo dopoguerra è tornato in auge per essere consacrato nelle dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo, fatte apposta tuttavia per essere disattese, con un incremento dell’ipocrisia mai toccato prima. Già il giovane Marx, del resto, criticando le carte costituzionali francesi, osservava come il secondo comma di un articolo finiva per limitare e negare ciò che nel primo era solennemente sancito. Il recente tentativo del ministro Alfano di aggirare il chiaro contenuto degli articoli 21 e 33 della nostra costituzione si colloca in questo ambito, ubbidendo a pressanti sollecitazioni della “Israel lobby”, che teme più della morte la libertà di pensiero e di espressione.
2. “Questo è pericoloso per gli ebrei: molto pericoloso”. – L’articolo di Pappe analizza la visione che Israele può avere di ciò che sta succedendo e non è ancora concluso nel Nord Africa e nel Medio Oriente: per Israele «se hanno davvero successo, ler rivolte tunisine ed egiziane, sono pericolose, molto pericolose». L’articolo tradotto in italiano è stato postato su “Come don Chisciotte” il 18 febbraio scorso. Sono da allora passati oltre due mesi, rispetto all’articolo originale, ed il quadro si va annebbiando. Il titolo virgolettato corrisponde ad una frase pronunciata dal Zvi Mazael il 28 gennaio e commentata da Ilan Pappe. Sta venendo fuori che Israele – che pretende di essere «l’unica democrazia del Medio Oriente», un leit motiv della propaganda – ha in effetti bisogno di essere circondato da regimi dittatoriali da poter corrompere e con i quali concludere “trattati di pace”: «I trattati di pace con Israele sono i sintomi di una corruzione morale non della malattia stessa - questo è il motivo per cui il Presidente Syriano Bashar Asad, indubbiamente un leader anti-Israeliano, non è immune da quest'onda di cambiamento. No, ciò che è in ballo qui è la pretesa che Israele sia un stabile, civilizzata, occidentale isola in un brutale mare di barbarismo Islamico e fanatismo Arabo. Il "pericolo" per Israele è che la cartografia sarebbe la stessa ma la geografia cambierebbe. Sarebbe ancora un'isola ma di barbarismo e fanatismo in un mare di stati democratici ed egualitari formati recentemente».
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PERCHE' HAI LASCIATO IL CAVALLO ALLA SUA SOLITUDINE?
Di Mahmoud Darwish
PERCHE' HAI LASCIATO IL CAVALLO ALLA SUA SOLITUDINE?
Di Mahmoud Darwish
Mahmoud Darwish (in arabo: محمود درويش , Maḥmūd Darwīsh; al-Birwa, 13 marzo 1941 – Houston, 9 agosto 2008) è stato un poeta e scrittore palestinese.
È autore di circa venti raccolte di poesie (pubblicate dal 1964 a oggi) e sette opere in prosa, di argomento narrativo o saggistico. È considerato tra i maggiori poeti in lingua araba. È stato giornalista e direttore della rivista letteraria "al-Karmel" (Il Carmelo), e dal 1994 era membro del Parlamento dell'Autorità Nazionale Palestinese.
I suoi libri sono stati tradotti in più di venti lingue e diffusi in tutto il mondo. Solo una minima parte della sua produzione letteraria è stata tradotta in italiano.[1] È scarsa anche la traduzione in lingua inglese della sua opera.
Biografia[modifica | modifica sorgente]
Mahmoud Darwish (Maḥmūd Darwīsh) nacque nel 1941 nel villaggio di al-Birwa, situato in Alta Galilea a est della città di Akko (Acri). Il suo villaggio natale oggi è distrutto e non più presente sulle carte. Nel 1948 - durante il primo conflitto arabo-israeliano - I genitori di Mahmoud per sfuggire ai rischi della guerra cercarono rifugio in Libano con il resto della popolazione, ma furono tra i pochissimi che riuscirono rientrare nel loro paese, illegalmente, dopo appena un anno. Nel frattempo però la loro terra d'origine era diventata parte dello stato di Israele, i loro beni confiscati.
In questa condizione fin da bambino Darwish si trovò nello status legale di “alieno”, cittadino che risiede come “ospite illegale”. Da giovane fu arrestato e condannato più volte a pene detentive, per la sua presenza in Israele senza permesso e per aver recitato poesie sovversive in pubblico. Studiò peraltro la lingua ebraica israeliana, perfezionando la conoscenza della sua lingua natia. Cominciò l'attività pubblicistica a diciannove anni, iscritto all'università non ebbe la possibilità di laurearsi a causa delle interruzioni degli studi nei periodi trascorsi in prigione, anche se in Unione Sovietica, a Mosca, si costruì nel 1971 una solida preparazione linguistico-letteraria.
Pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Foglie d'Ulivo, nel 1964. È un'opera che trasfigura in quadri di forte impatto l'identità nazionale palestinese. Divennero famose alcune poesie che raccontano la condizione dolorosa e folle dell'esilio. La carriera poetica di Mahmoud Darwish, dall'epoca della prima pubblicazione, mantiene legami ideali con la lotta armata del popolo palestinese per il ritorno alla sua terra (l'attività dei gruppi armati cominciò anch'essa nel 1964). La poesia di Darwish assumeva un ruolo di riferimento collettivo per la causa palestinese.
Fu direttore del quotidiano locale “Ittiḥād” (Unità) fino al 1970. In quell'anno abbandonò definitivamente la Palestina/Israele per un periodo di studio in Unione Sovietica. Da allora trascorse la sua vita risiedendo per periodi diversi nelle principali città del mondo arabo: Il Cairo, Beirut, Tunisi, Amman. A Beirut diresse un mensile palestinese (Shuʿūn Filasṭīniyya, "Affari Palestinesi"), quindi divenne direttore della rivista letteraria palestinese "al-Karmel", pubblicata da un dicastero dell'OLP. Visse per un lungo periodo a Beirut fino al 1982, quando la città fu assediata dall'esercito israeliano. Darwish dovette abbandonare il Libano insieme allo Stato Maggiore e al Comitato Esecutivo dell'OLP (l'organo di governo dell'OLP). Dopo un periodo di esilio a Cipro, visse tra Beirut e Parigi. Lavorò anche al Cairo presso il quotidiano nazionale "al-Ahrām".
La seconda metà degli anni ottanta furono l'epoca del suo maggiore impegno politico. Nel 1987 fu eletto nel Comitato Esecutivo dell'OLP. (Sempre nell'87 Darwish partecipa a Firenze alla rassegna "Poeti del Mediterraneo per la Pace", organizzato dagli Enti locali e dalla rivista culturale Collettivo R. Con Darwish ci sono lo spagnolo Goytisolo, l'italo-jugoslavo Damiani, l'israeliana Ravilovich, il greco Apostolatos...).
In parte i suoi spostamenti dell'epoca e particolari della sua vita sono segreti (per ragioni di sicurezza ciò valeva per tutti gli esponenti di organizzazioni palestinesi). Darwish era stato una figura politica dalla metà degli anni sessanta, quando entrò nel Partito Comunista di Israele (Rakah). La sua carriera politica si svolse però nell'OLP, di cui divenne uno dei quadri. Al momento della sua elezione nell'organismo decisionale era considerato un rappresentante dell'“ala dura”, la corrente che difendeva maggiormente il principio del diritto al ritorno dei profughi e la "distruzione" dello Stato di Israele. Si dimise dal Comitato Esecutivo sei anni dopo, nel 1993, perché contrario agli accordi di Oslo (accusò Yasser Arafat di eccessiva arrendevolezza nei negoziati).
Mahmoud Darwish ha redatto il testo della Dichiarazione d'Indipendenza dello Stato Palestinese, documento promulgato nel 1988 e riconosciuto da diversi stati.
Solo nel 1996, dopo 26 anni di esilio, ottenne un permesso per visitare la sua famiglia nello stato di Israele. È nuovamente direttore di "al-Karmel" (rifondata nel frattempo) ed è stato eletto nel Consiglio Legislativo Palestinese nei Territori, oggi tuttora occupati.
Mahmoud Darwish è morto all'età di 67 anni a Houston (Texas) il 9 agosto 2008, per le complicanze di un delicato intervento al cuore. Già nel 1984 e nel 1998 aveva subìto delicati interventi al cuore.
Mahmoud Darwish è la prima e, ad oggi, unica personalità palestinese dopo Arafat alla quale sono stati concessi i funerali di Stato.
RITORNO AD HAIFA
Di Kanafani Ghassan
Poeta, scrittore, saggista palestinese, Kanafani racconta due diaspore: quella palestinese e quella ebraica, eccomunate da un unico, tragico destino. Said, palestinese di Haifa, torna con la moglie, dopo vent'anni di esilio, nella sua città natale per rivedere fugacemente i luoghi amati e la casa, ora abitata da una famiglia di ebrei polacchi scampati ad Auschwitz, e per cercare il figlio, abbandonato durante la repentina e tragica fuga. Con grande umanità e forza emotiva, Ghassan Kanafani ci accompagna in questo viaggio nel presente e nel passato, dove riaffiorano da entrambe le parti il disagio e la tristezza della situazione, in un groviglio di sentimenti e passioni umane.
Ghassan Kanafani (Acri, 9 aprile 1936 – Beirut, 8 luglio 1972) è stato uno scrittore, giornalista e attivista palestinese, particolarmente impegnato per la causa del suo popolo, scomparso in un attentato incendiario in cui perse la vita insieme a una nipote sedicenne. All'epoca della sua morte era portavoce del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, e l'attentato, si dice, fu ordinato dal Mossad per vendicare il Massacro dell'Aeroporto di Lod, attacco attribuito al suo gruppo politico e all'Armata Rossa Giapponese.
Biografia[modifica | modifica sorgente]
Kanafani nasce da una famiglia di rango medio-alto, suo padre era un avvocato e, come era comune a quel tempo, fu mandato a studiare alla scuola dei Missionari Francesi che erano in Palestina. Aveva dodici anni quando fu creato lo stato di Israele nel 1948, evento che gli arabi chiamano al-Nakba (il disastro) e poté assistere al tragico episodio del massacro degli abitanti del villaggio arabo di Deir Yassin.
Da questo momento la sua vita e le sue esperienze rappresenteranno le tappe del popolo palestinese, dalla diaspora al sentimento di nostalgia verso la propria terra, dalla presa di coscienza della sconfitta dell'esercito arabo all'umiliazione e alla perdita di identità. La sua famiglia si rifugiò dapprima in un villaggio del Libano meridionale nella speranza di ritornare al più presto a casa, ma il padre, consapevole dell'inutilità di quella attesa, spostò la famiglia a Damasco per iniziare una nuova vita.
In questo lasso di tempo il giovane Ghassan, all'età di sedici anni, trovò lavoro come insegnante in una delle scuole dell'UNRWA (United Nations Relief and Works Agency), l'organo dell'ONU per l'assistenza dei profughi, e pochi anni dopo si iscrisse all'università di Damasco alla facoltà di letteratura araba.
Questi anni nella capitale siriana pongono le basi del suo impegno alla causa palestinese, partecipando alla condizione del suo popolo nei campi profughi e durante l'università attivandosi sia come scrittore sia come studente politicizzato lavorando nel Movimento Nazionalista Arabo guidato da George Habash.
Nel 1955 Kanafani decise di raggiungere suo fratello e sua sorella nel Kuwait, il quale essendo un paese ricco di petrolio, divenne meta di molti emigranti palestinesi fin dalla Nakba. In questo paese iniziò il suo impegno di scrittore di racconti brevi che vennero pubblicati su varie riviste letterarie e proprio in questo paese dovette fare i conti con la dura realtà di esule che non riesce ad integrarsi nella nuova società.
Nel 1960 decise di trasferirsi a Beirut per unirsi allo staff di giornalisti della nuova rivista politica di George Habash al-Ḥurriyya (Libertà) per partecipare attivamente alle vicende palestinesi e a Beirut Kanafani conobbe Anni Hoover, un'insegnante danese che stava analizzando la situazione dei rifugiati. Dopo due mesi si sposarono e proprio in questo periodo Kanafani le dedicò il romanzo breve più famoso ovveroUomini sotto il Sole. Lo stesso anno divenne redattore capo di un altro nuovo quotidiano di Beirut al-Muḥarrir (Il Liberatore), mostrando quindi sia la valenza artistica, sia un grande attivismo in ambito giornalistico che lo portarono ad assumere ruoli di primo piano.
La nascita dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) del 1964, con conseguente primo attacco armato portò nuovi sviluppi non solo nella coscienza della comunità palestinese, la quale vide la speranza di realizzazione di un sogno che perdurava dal 1948, ma influenzò notevolmente anche la letteratura degli scrittori arabi e quindi anche quella di Kanafani che ne vedevano una forma di azione politica. Questo sogno andò in frantumi dopo la disastrosa guerra dei sei giorni che gli arabi chiamano al-Naksa, che segnò la netta sconfitta dell'esercito arabo contro l'esercito israeliano nel giugno del 1967 e lo sbigottimento generale della popolazione palestinese, ma che risuonò forte in tutto il mondo arabo. In questo momento di incredulità Kanafani scrisse un'altra opera importantissima nel panorama mondiale: Ritorno ad Haifa.
Tuttavia Kanafani rimase ottimista e continuò imperterrito la sua lotta, lasciando al-Muḥarrir per unirsi al prestigioso al-Anwar (Le Luci) che lasciò ancora nel 1969 per fondare il giornale politico che diventerà l'organo del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP): al-Hadaf (L'Obiettivo). Quest'organizzazione di resistenza era di orientamento Marxista e si proponeva di stabilire una nuova società giusta in tutto il mondo arabo. Kanafani infatti vide che il futuro poteva ancora essere roseo perché lo poneva nelle mani delle nuove generazioni, dotate di fervore patriottico e pronte a diventare martiri per la propria terra.
Lo stesso scrittore cambiò l'approccio alla letteratura dal 1967 divenendo più ottimistica e politica rispetto al periodo precedende in cui si leggeva pessimismo e una forte disillusione soprattutto nelle vecchie generazioni. Infatti fu lui che per primo parlò di Adab al-Muqawwama (letteratura della resistenza).
Proprio per il suo fervore politico Ghassan Kanafani perse la vita in un attentato israeliano insieme a sua nipote di sedici anni.
L'attività letteraria[modifica | modifica sorgente]
Ghassan Kanafani è il più importante rappresentante di quel gruppo di palestinesi che dall'esilio (in arabo Ghurba) hanno contribuito a lottare per la causa palestinese tramite le loro opere artistiche.
La Nakba del 1948 e la Naksa del 1967 sono stati gli avvenimenti più rappresentativi per l'intero mondo arabo quando si parla di evoluzione della letteratura araba del Novecento, che dagli studiosi vengono ritenuti un vero e proprio giro di boa. I libri degli intellettuali arabi diventano soprattutto opere di denuncia per risvegliare la coscienza del loro popolo e di critica verso le classi dirigenti, incapaci di sollevare la dignità di tutta quella gente incapace di reagire.
Per quanto riguarda la letteratura specificatamente palestinese e quindi di Kanafani, la prosa di questi autori diventa interessante dagli inizi degli anni Sessanta e si consolida dal 1967. Infatti la Letteratura della Resistenza assume connotati politici e sociali e per questa ragione per descrivere fatti storici in una lingua immediata e di facile comprensione, gli scrittori utilizzano il genere del Racconto, genere letterario conosciuto dal mondo arabo grazie all'influenza occidentale.
Le opere di Kanafani quindi sono per la stragrande maggioranza Romanzi brevi o Racconti, anche se è presente qualche lavoro teatrale. Numerosi critici arabi tra cui Ahmed Khalīfa concordano nel dividere le sue opere in due periodi.
Al primo appartengono gli scritti caratterizzati da pessimismo, in cui non si vede una soluzione per la condizione del suo popolo e la sua scrittura ricorre al simbolismo; questo periodo arriva circa fino al 1967 e tra i suoi lavori gli esempi più conosciuti sono:
Al secondo periodo, quello che parte dalla Naksa, cambia l'atteggiamento dello scrittore, che diventa più politicizzato ed attento alle vicende storiche, mostrando il suo ottimismo nell'azione di voler cambiare le cose con la lotta e non nell'attesa passiva. Esempi sono:
- All that's left to you (Mā tabaqqā lakum), 1966, che funge da collante tra questi due periodi
- La madre di Saad (Umm Sa'd), 1969
- Ritorno ad Haifa ('Ā'id ilà Haifā), 1969
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Caro Mustafa,
ho ricevuto la tua lettera, nella quale mi dici di aver fatto tutto il necessario per consentirmi di stare con te a Sacramento.
Mi hanno comunicato di essere stato accettato al dipartimento di Ingegneria civile nell’Università della California. Devo ringraziarti per ogni cosa, amico mio. Ma quello che sto per rivelarti ti sorprenderà piuttosto inaspettatamente: non ho dubbi in proposito; non mi sento di esitare affatto; ne sono così convinto che non ho mai visto chiaramente le cose come le vedo adesso. No, amico mio, ho cambiato idea. Non ti seguirò “nella terra dove c’è vegetazione, acqua e facce attraenti”, come hai scritto.
No, sto qui, non partirò più.
Amico mio… Non potrò mai dimenticare la gamba di Nadia, amputata dalla coscia. No! Non dimenticherò mai il dolore che modellò il suo viso e si fuse per sempre nei suoi tratti. Quel giorno uscii dall’ospedale di Gaza con la mano che stringeva, in silenzioso scherno, le monete che avevo
portato per Nadia. Il sole cocente riempiva le strade con il colore del sangue.
portato per Nadia. Il sole cocente riempiva le strade con il colore del sangue.
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No, amico mio, non andrò a Sacramento, e non me ne rammarico. No, e neppure finirò quello che abbiamo iniziato insieme nella nostra infanzia. Questo oscuro sentimento che hai avuto quando hai lasciato Gaza, questo piccolo sentimento deve crescere dentro di te come un gigante. Deveespandersi, e devi cercarlo per trovare te stesso, qui tra le brutte macerie della sconfitta.Non verrò da te. Ma tu, tu torna da noi! Rientra, per imparare dalla gamba amputata di Nadia, amputata dalla coscia, che cosa è la vita e cosa il valore dell’esistenza.
Rientra, amico mio! Siamo tutti quanti qui ad aspettarti.
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