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martedì 28 ottobre 2014
Lebdewah- Una Palestinese racconta
Edifici danneggiati a Nahr el-Bared
A Nahr el-Bared abbiamo perso la nostra casa, in Palestina la nostra terra
Nahr el-Bared è un luogo magico, un luogo con cui ho da subito sentito un forte legame, già prima di metterci piede, quando cercavo di ottenere il permesso per entrare e non capivo perché fosse così complicato. Alla fine ce l’ho fatta ma una volta entrata ho continuato a chiedermi il perché. Nahr el-Bared è circondato dall’esercito libanese e si può entrare solo passando per i cinque check-point che lo circondano e se non si è palestinesi o libanesi si ha bisogno di un permesso. Ragioni di sicurezza dicono, una frase che si sente pronunciare troppo spesso quando si tratta di palestinesi. Nonostante ciò è il campo profughi più pacifico che io abbia visitato in Libano.
La guerra del 2007, un duro conflitto tra le Forze Libanesi e il gruppo Fatah Al-Islam, ha distrutto il 95% del campo e, secondo i dati UNRWA, circa 27.000 rifugiati palestinesi di Nahr el-Bared e delle aree adiacenti sono rimasti senza casa. Durante i tre mesi di assedio, il campo è stato colpito con artiglieria pesante e bombardamenti aerei e quasi tutti gli edifici e le infrastrutture nel campo sono state distrutte o danneggiate irreparabilmente, forzando i residenti a spostarsi nel vicino campo di Beddawi. Sette anni dopo gran parte del campo è ancora in rovina.
Tuttavia le persone cercano di ricostruire le proprie vite e vanno avanti affrontando la vita con il sorriso. A Nahr el-Bared ho incontrato persone stupende che mi hanno fatto sentire parte della loro comunità e mi hanno insegnato il significato della frase “non perdere il sorriso”. A Nahr el-Bared ho incontrato anche Lebdewah e mi sono subito innamorata di lei. È una donna fantastica, saggia, forte, divertente ed intelligente e allo stesso tempo ironica e dolce. Il pomeriggio ama sedersi su uno stuoino in veranda, bere caffè e chiacchierare con le figlie e i vicini. Una sera a casa sua ho avuto una splendida conversazione con lei e le sue figlie, mi ha raccontato della vita che ha vissuto, una vita durissima, e della forza con la quale ha affrontato tutto ciò che le è capitato. Mi ha dato molta energia e speranza per il futuro.
Lebdewah vive a Nahr el-Bared con le sue due figlie in una casa accanto al mare. Mi hanno accolta in casa loro come fossi una di famiglia, trattandomi con la dolcezza e l’amore protettivo delle mamme. Durante una conversazione sull’ISIS mi dissero: “Se succede qualcosa ti proteggeremo noi, vieni a casa nostra e sarai al sicuro, li picchieremo quelli dell’ISIS se vengono qui”. Ogni volta che le andavo a trovare ridevamo tanto, Lebdewah rimaneva in silenzio per la maggiorparte del tempo, parlava solo quando aveva qualcosa di importante e saggio da dire, mentre le sue figlie amavano parlare e chiacchierare. È una famiglia bellissima la loro. Mi ricordo benissimo la sera che Lebdewah mi ha raccontato la sua storia perché ho capito quanto sono importanti persone come lei al mondo. È saggia, ma anche molto emotiva e riusciva a stento a trattenere le lacrime quando parlava della Palestina.
Mentre sua figlia ci serviva il caffè arabo (khawa), Lebdewah ci raccontava la storia della sua vita, di come è finita dalla Palestina al nord del Libano (le sue figlie, scherzando, ancora la rimproverano per questo). Ci sedemmo tutti sullo suoino, formando un cerchio intorno a lei per ascoltare attentamente la sua storia.
Questa è la sua storia:
«Mi chiamo Lebdewah e sono nata a Zib, un villaggio tra Nahara e Akka, nel nord della Palestina. La vita lì era bellissima, avevamo la nostra terra, le nostre pecore e lavoravamo la terra e avevamo una vita semplice e bella. Sono arrivata in Libano dopo la Nakba, nel 1948. Avevo 15 anni ed ero incinta a quel tempo. Alcuni giorni prima della Nakba avevamo sentito parlare del massacro del villaggio di Deir Yassin dove case e strade erano state bombardate e la gente massacrata – incluse donne incinte. Il nostro villaggio era ancora sicuro ma dopo un po’ cominciarono a bombardare anche noi. Bombardavano sulle nostre teste e cominciammo a fuggire come pazzi in da ogni parte senza una direzione ben precisa, non sapevamo dove andare.
Poi abbiamo iniziato a camminare verso il confine con il Libano e ci abbiamo messo tre giorni per arrivare a Tiro, la nostra prima tappa. Intanto gli aeroplani volavano sulle nostre teste tutto il tempo e noi ci nascondevamo sotto gli alberi o tra i cespugli. Erano aereoplani israeliani perché gli inglesi se ne erano già andati a quel tempo. Ci dormivamo pure sotto gli alberi di notte. Una volta al confine io ero così spaventata e la mia gravidanza era troppo avanzata, così ho partorito il mio bambino al confine, sotto gli alberi. Quando siamo arrivati a Tiro sapevamo ch non saremmo più tornari in Palestina. Le Nazioni Unite cominciarono a darci cibo e tende in cui dormire e dopo nove mesi a Tiro fummo spostati a Bekkaa, vicino al confine con la Siria. Poi ci spostammo finalmente al campo profughi di Nahr el-Bared dove abbiamo dormito nelle tende per cinque anni.
Intorno a Nahr el-Bared non c’era niente a quel tempo, né case, né strade, era un paesaggio di montagna, senza luce. Di notte avevamo paura dei lupi perché scendevano verso il campo. D’estate dormivamo con le tende aperte e una notte mentre dormivo con mio figlio un lupo venne vicino alla nostra tenda e ci spaventò a morte. Un cane lo allontanò ma dopo quella notte iniziammo a chiudere la tenda da dentro. Anche quando pioveva era difficile e non c’era elettricità, dovevamo accendere il fuoco per cucinare e fare luce. Inoltre, per prendere la legna dovevamo fare lunghe camminate sulle montagne. Abbiamo vissuto cinque anni in questa situazione. Giorno dopo giorno le cose sono cambiate e la vita è migliorata. L’UNRWA ci dava zucchero e farina, ci hanno aiutato molto. Ora la situazione è migliorata molto, ma ne abbiamo passate tante anche a Nahr el-Bared. Come la guerra del 2007».
Una delle figlie sospira e dice «Oh mio Dio, la guerra! Io sono stata la prima a uscire dal campo durante la guerra! Ero talmente spaventata che non riuscivo a respirare». E l’altra figlia risponde saggiamente: «La guerra è stata terribile, ma a Nahr el-Bared abbiamo perso la nostra casa, in Palestina la nostra terra». Poi Lebdewah riprende a raccontarci la guerra del 2007. «Quando ho lasciato Nahr el-Bared a causa della guerra pensavo che fosse la mia seconda Nakba, mi ha ricordato quando sono stata costretta a lasciare la mia casa in Palestina. Questa volta ho portato con me cibo, pane, perché ero sicura che non sarei più tornata neanche a Nahr el-Bared. Avrei preferito non andarmene dal campo, ma sono stata costretta. Adesso, sette anni dopo, sto ancora aspettando che la mia casa venga ricostruita, e vivo qui, in casa di mio figlio, con le mie due figlie. Siamo state fortunate ad avere un membro della famiglia che ci aiutasse.
Il Libano non ci ha mai trattato bene, non mi sono mai sentita a casa qui, ci chiamano profughi, non palestinesi, siamo come fantasmi con le nostre storie. Ci hanno costretti a venire qui ma al governo libanese non è mai importato di noi, mentre da palestinesi abbiamo cercato più volte di trovare accordi con il governo in questi anni. Ci è voluto tanto perché le cose andassero meglio, mese dopo mese. Il governo si è comportato meglio della gente comunque. È un miracolo che siamo ancora vivi dopo tutto questo».
Erano le 11 di sera quando me ne andai da casa di Lebdewah e dopo aver parlato con lei ero così confusa che ho dimenticato di chiederle di scattarci una foto insieme. Avevo un insieme di di sentimenti che non ho saputo descrivere per lungo tempo: tristezza, rabbia, disperazione ma anche felicità e speranza. Il senso della vita e il futuro erano altre due cose su cui mi sono interrogata molto dopo quell’incontro. Mi sentivo come se fossi nel posto giusto al momento giusto quella sera da lei e non ho bisogno di una foto per ricordare Lebdewah e quei sentimenti. I palestinesi esistono, davvero. Nonostante tutti gli sforzi che Israele e i governi occidentali fanno per cancellare le loro vite, la loro cultura, la loro memoria, nonostante tutti gli sforzi che il Libano ha fatto per rendere la loro vita un inferno e per farli sentire come in una prigione, perché Nahr el-Bared è una prigione. I ricordi di Lebdewah vivranno per sempre oltre le barriere e l’assedio. I palestinesi non smetteranno mai di lottare e avranno sempre chi li sosterrà. Io ho scelto da che parte stare e non mi tiro indietro
(Irene Tuzi)
martedì 14 ottobre 2014
KURDISTAN: Un Popolo che resiste
A nord di quella che tutti abbiamo iniziato a conoscere col nome di“Mesopotamia”, si staglia l’altopiano del Kurdistan. Nella parte nord-orientale di quella che fu la “Mezzaluna Fertile”, protesa supina tra i fiumi Tigri ed Eufrate, un tempo culla delle civiltà dei Sumeri, degli Assiri e dei Babilonesi, vive e lotta uno dei più grandi gruppi etnici al mondo privi di unità nazionale. I curdi, che secondo una stima sono 40 milioni in tutto il pianeta, sono la quarta etnia medio-orientale dopo arabi, persiani e turchi. Si tratta indubbiamente di uno dei gruppi etnici più oppressi e perseguitati della storia, oggi di nuovo esempio per tutto il mondo di resistenza contro il fondamentalismo islamico e l’imperialismo occidentale. Per oltre un secolo, i curdi si sono battuti con ogni mezzo per la creazione di uno Stato autonomo, il “Kurdistan” (paese dei curdi), che ad oggi è riconosciuto solamente come nazione ma non come Stato indipendente. Un territorio difficile, politicamente incastrato agli angoli di cinque stati differenti: Turchia, Iran, Iraq, Siria e Armenia. Terra di reminiscenze storicheantiche e passaggi di popolazioni nomadi, inizia a conoscere il proprio tormento in epoche più recenti, precisamente nei primi anni del XX secolo, quando, a seguito di vari Trattati, lo storico territorio curdo si trovò diviso fra diversi nuovi stati. Ha inizio una politica di discriminazione razziale nei confronti dei curdi che non ha esempi in nessun’altra parte del mondo. Gli stati che attuarono queste politiche, principalmente Siria e Turchia, le condussero al fine di negare persino l'identità e l'esistenza stessa del popolo curdo, utilizzando tutti i mezzi a loro disposizione. Nel 1945 si forma, con l'appoggio dell'Unione Sovietica, il Partito Democratico Curdo guidato da Mustafa Barzani, di ispirazione tipicamente nazionalista, ad oggi partito di centrodestra a tutti gli effetti. Il 22 gennaio 1946, in territorio iraniano,i “peshmerga” di Barzani assieme ad altri compatrioti curdi, proclamarono la formazione di una Repubblica Popolare Curda, con capitale Mahabad. Con il ritiro delle forze sovietiche, le truppe iraniane riconquistarono il territorio, condannando a morte i vertici politici e mettendo fine a quella breve esperienza. Vedendosi negata l'esistenza di un’identità nazionale e politica, i nazionalisti curdi hanno spesso fatto ricorso alla lotta armata. Gli scontri violenti, seguiti da feroci repressioni a danno dei curdi, continuano ad essere molto frequenti. Ma è ormai sotto gli occhi di tutti che dietro ad una definizione squisitamente geografica si nasconde uno dei luoghi più ricchi di petrolio al mondo, generando intorno ad esso forti interessi economici da parte di potenze occidentali come gli Stati Uniti d’America.
IL PKK
A seguito delle due Guerre del Golfo (1990-1991 e 2003) e dell'invasione statunitense in Iraq, la questione dei curdi si inserisce nel quadro delle strategie degli USA per ottenere il controllo del territorio e delle sue preziose risorse. Difatti, il Partito Democratico del Kurdistan (PDK) e l’Unione Patriottica del Kurdistan (UPK) in Iraq, il Partito Democratico del Kurdistan Iraniano ed il Partito per la Libertà del Kurdistan (PJAK) in Iran, sono gruppi ben equipaggiati e finanziati direttamente o indirettamente dagli USA. Totalmente differente è la questione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) in Turchia, partito osteggiato e tacciato di terrorismo da tutte le potenze, soprattutto quelle occidentali. Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, ad oggi, èun movimento politico clandestino armato, sostenuto dalle masse popolari e agricole del sudest della Turchia, zona popolata dall'etnia curda. Nato su basi marxiste-leniniste nel 1978 sotto la guida di Abdullah Öcalan, fu gravemente decimato dall’esercito turco che nel 1980 prese il potere tramite un colpo di Stato. Tra il 1980 e il 1983 furono eseguite 89 condanne a morte, centinaia di militanti furono arrestati e migliaia vennero indagati per "cospirazione". Nel 1984 la Turchia tornò ad un governo formalmente democratico, ma a carattere monopartitico e fortemente condizionato dall'esercito. Il PKK, non riconoscendo passi avanti sostanziali nel riconoscimento dei diritti dei curdi, prese le distanze dagli altri partiti democratici curdi indipendentisti, il PDK e l'UPK, e scelse la via della lotta armata.Secondo un rapporto della Commissione di Indagine del Parlamento turco, il conflitto tra lo Stato turco e il PKK avrebbe provocato complessivamente tra le 35.000 e le 40.000 vittime, suddivise tra militari e civili appartenenti a varie etnie sul territorio. Ed ecco che alla fine degli anni ’90 la storia del PKK si intreccia, con esito infelice, con quella del nostro Paese. Nel 1998, il leader Abdullah Öcalan giunse in Italia, con l’aiuto del deputato Ramon Mantovani di Rifondazione Comunista, chiedendo asilo politico e sollevando di conseguenza un polverone mediatico internazionale che compromise i rapporti tra Italia e Turchia. Il governo D'Alema prese tempo, mentre Öcalan soggiornava a Roma protetto dagli agenti della Digos. Ciò irritò il governo turco e le forze di centrodestra italiane, favorevoli all'espulsione di Öcalan.La vicenda si concluse col diniego dell'asilo politico da parte delle autorità italiane e Ocalan fu invitato a partire per Nairobi. Pochi giorni dopo venne catturato dagli agenti dei Servizi segreti turchi del MIT e dalla CIA, consegnato, in condizioni non del tutto trasparenti, allo Stato turco.Da quel momento, Abdullah Ocalan, grazie al contributo del governo D’Alema, è prigioniero in un carcere di massima sicurezza sull’isola di Imrali, dove sconta una condanna a morte poi tramutata in ergastolo e da dove continua a dirigere il PKK. Dopo aver abbracciato come linea teorica e pratica quella del municipalismo libertario, il PKK nel 2001, a seguito degli attentati dell’11 settembre fu inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche. Nel 2006 il governo Turco approvò una legge secondo cui i minori che manifestavano sostegno alle formazioni riconducibili al PKK potevano essere arrestati secondo procedure normali per il caso.Questa norma, atta a scoraggiare le manifestazioni a favore dei guerriglieri curdi, ha ottenuto l’effetto contrario a quello pensato: infatti, un gran numero di coloro che prima simpatizzavano solamente per il PKK, decisedi abbracciare totalmente la causa curda. Dopo altri numerosi scontri tra guerriglieri del PKK e forze armate turche, nel marzo 2013 Öcalan ha annunciato il "cessate il fuoco" ed il ritiro dei guerriglieri del PKK dal territorio turco, dando il via alle trattative di pace con la Turchia.
“La nostra lotta non è stata contro una razza, una religione o dei gruppi. La nostra lotta è stata contro ogni tipo di pressione e oppressione. Oggi ci stiamo risvegliano in un nuovo Medio Oriente, in una nuova Turchia e in un nuovo futuro. Oggi sta cominciando una nuova era. Una porta si è aperta per passare dalla lotta armata alla lotta democratica. Il Medio Oriente e l’Asia Minore sperano in un nuovo ordine. Un nuovo modello è una necessità come il pane e l’acqua. È il tempo dell’unità. Turchi e curdi hanno combattuto insieme a Çanakkale [nella Seconda Guerra Mondiale], e varato insieme il primo parlamento turco nel 1920. Nonostante tutti gli errori fatti negli ultimi 90 anni, stiamo cercando di costruire un modello che abbracci tutti gli oppressi, le classi e le culture. Le persone in Medio Oriente stanno cercando di rinascere dalle loro radici, perché sono stanche di tutte le guerre e i conflitti. La base della nuova lotta sono le idee, le ideologie e le politiche democratiche. Ora le pistole vanno silenziate e devono parlare i pensieri. È arrivato il momento che le armi escano dai confini turchi. Questa non è la fine, ma un nuovo inizio”.
CONTRO IL FASCISMO DELLO STATO ISLAMICO E L’IMPERIALISMO
Scrive Sandro Mezzadra in un recente articolo a proposito della Resistenza curda “Nei giorni scorsi, H&M ha lanciato per l’autunno una linea di capi d’abbigliamento femminili chiaramente ispirata alla tenuta delle guerrigliere curde le cui immagini sono circolate nei media di tutto il mondo. Più o meno nelle stesse ore, le forze di sicurezza turche caricavano i curdi che, sul confine con la Siria, esprimevano la propria solidarietà a Kobanê, che da settimane resiste all’assedio dello Stato islamico (ISIS). Quel confine che nei mesi scorsi è stato così poroso per i miliziani jihadisti oggi è ermeticamente chiuso per i combattenti del PKK, che premono per raggiungere Kobanê. E la città curda siriana è sola davanti all’avanzata dell’ISIS. A difenderla un pugno di guerriglieri e guerrigliere delle forze popolari di autodifesa (YPG/YPJ), armati di kalashnikov di fronte ai mezzi corazzati e all’artiglieria pesante dell’ISIS. Gli interventi della “coalizione anti-terrorismo” a guida americana sono stati - almeno fino a ieri - sporadici e del tutto inefficaci. Già qualche bandiera nera sventola su Kobanê. Ma chi sono i guerriglieri e le guerrigliere delle YPG/YPJ? Qui da noi i media li chiamano spesso “peshmerga”, termine che evidentemente piace per il suo “esotismo”. Peccato che i peshmerga siano i membri delle milizie del KDP (Partito Democratico del Kurdistan) di Barzani, capo del governo della regione autonoma del Kurdistan iracheno: ovvero di quelle milizie che hanno abbandonato le loro posizioni attorno a Sinjar, all’inizio di agosto, lasciando campo libero all’ISIS e mettendo a repentaglio le vite di migliaia di yazidi e di appartenenti ad altre minoranze religiose. Sono state le unità di combattimento del PKK e delle YPG/YPJ a varcare i confini e a intervenire con formidabile efficacia, proseguendo la lotta che da mesi conducono contro il fascismo dello Stato Islamico”.Un’analisi - quella di Mezzadra - ineccepibile. L’YPG, all’anagrafe “Unità di Protezione del Popolo”, è il braccio armato del PYD, l’Unione Democratica della Rojava, il Kurdistan occidentale. L’YPG è una filiazione a tutti gli effetti del PKK, i cui militanti stanno dando il loro contributo alla resistenza contro l’avanzata dell’ISIS, a difesa del loro territorio. Particolarmente numerosa è la presenza di donne tra le file dell’YPG. A tal proposito, prosegue Mezzadra “Nella Rojava il femminismo è incarnato non soltanto nei corpi delle guerrigliere in armi, ma anche nel principio della partecipazione paritaria a ogni istituto di autogoverno, che quotidianamente mette in discussione il patriarcato. E l’autogoverno, pur tra mille contraddizioni e in condizioni durissime, esprime davvero un principio comune di cooperazione, tra liberi e uguali”.
Un esempio di lotta, coraggio, libertà, giustizia, uguaglianza e dignità di fronte ad un mondo occidentale e arabo intollerabilmente cinico. Un esempio che oltre a farci riflettere dovrebbe farci tornare nelle piazze al fianco di quei curdi che stanno manifestando in molte parti del mondo. E non solo per la solita, formale, retorica “solidarietà”, ma perché, come prosegue ancora Mezzadra, “dentro la crisi, la guerra minaccia anche di saldarsi con l’irrigidimento dei rapporti sociali e con il governo autoritario della povertà. Guerra e crisi: non è un binomio nuovo”.Un esempio che potrebbe fungere come “nuova narrazione” per le giovani generazioni antagoniste di questo sistema marcescente. E siccome la politica spesso, per chi la fa su strada, è scandita da “miti” e da “chimere” - a volte, purtroppo, eccessivamente caricaturizzate - perché non ripartire dai guerriglieri curdi che in queste ore stanno lottando sacrificando la loro vita non per una “nazione”, ma per una prospettiva di mondo? E perché se i nostri cugini e i nostri fratelli ci parlano del Chiapas e riecheggiano di quel luglio del 2001 a Genova, perché se i nostri padri e i nostri zii ci dicono del Vietnam e di Che Guevara, perché se i nostri nonni partigiani e prima ancora i nostri bisnonni dicevano di “fare come in Russia”, noi non possiamo permetterci di pensare ad un altro modello di sistema e di “fare come in Kurdistan”?
Lorenzo Ghetti
lunedì 13 ottobre 2014
I LEADER DELLO STATO ISLAMICO
di Cristina Amoroso
Camp Bucca è un ex campo di detenzione vicino a Omm Qasr nel sud-est dell’Iraq, preso in gestione nell’aprile del 2003 dalle forze americane di occupazione e consegnato al governo iracheno nel 2010.
L’interesse per Camp Bucca non è legato ad abusi sui prigionieri, come nel caso della prigione di Abu Ghraib, il cui scandalo anzi generò il trasferimento di alcuni prigionieri a Camp Bucca, dove un notevole turn over nella catena di comando e sostanziali modifiche nella politica del campo permetteva all’esercito americano di presentare l’impianto come un modello di detenzione.
L’interesse su questa prigione nasce dalla considerazione del fatto che la maggior parte dei leader dello Stato Islamico (Is), in precedenza Stato islamico in Iraq e Siria (Isis), erano stati tutti incarcerati nella stessa prigione di Camp Bucca. Dopoché ai primi di luglio, Abu Bakr al-Baghdadi si dichiarò “califfo Ibrahim” di un nuovo Stato sunnita fondamentalista, esteso dall’Iraq occidentale e settentrionale al nord della Siria, sono cominciate “voci complottiste” sulla funzione misteriosa di Camp Bucca che avrebbe promosso o sostenuto l’estremismo, radicalizzando i futuri capi dell’Is.
In breve, Baghdadi divenne il più importante leader estremista iracheno dopo la sua prigionia a Camp Bucca. Ma per gran parte della sua vita adulta, Baghdadi non aveva una reputazione da pioniere jihadista. Secondo il Telegraph, i membri della sua moschea locale in Tobchi (un quartiere di Baghdad), che lo conoscevano dal 1989 fino al 2004 consideravano Baghdadi un collega tranquillo, studioso e un calciatore di talento. Quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq nel 2003, Baghdadi otteneva una laurea in studi islamici a Baghdad. Ma nel giro di un paio di anni dell’invasione statunitense, Baghdadi era prigioniero a Camp Bucca. È stato detenuto dal 2004 fino agli inizi del 2006. Dopo essere stato rilasciato, ha formato l’esercito dei sunniti, che in seguito si fuse con il cosiddetto Consiglio della Shura Mujahideen. Altre fonti affermano che il cosiddetto “califfo” dell’Isil, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, Abu Bakr Al-Baghdadia in realtà sarebbe Shimon Elliott, un ebreo ed agente del Mossad israeliano, è quanto rivela il sito americano Veterans Today (http://www.veteranstoday.com/2014/08/04/french-report-isil-leader-mossad/)
Quello che è successo durante la detenzione di Baghdadi nel Camp Bucca rimane un mistero. Alcune notizie di stampa hanno detto che era stato arrestato come “civile”, in carcere per 10 mesi nel 2004, mentre altri rapporti hanno dichiarato che fu catturato dalle forze statunitensi nel 2005 e tenuto per quattro anni a Camp Bucca. Quest’ultima possibilità è improbabile, dato che Baghdadi ha formato l’esercito dei sunniti e aderito al Consiglio della Shura Mujaheddin poco prima dell’assassinio di Abu Musab al-Zarqawi, nel giugno 2006, e tenendo conto del fatto che questo Consiglio è stato istituito nel gennaio 2006, è più probabile che Baghdadi sia stato rilasciato alla fine del 2005 o all’inizio del 2006.
Un altro importante leader di oggi è Abu Ayman al-Iraqi, che era un ex ufficiale dell’esercito iracheno sotto Saddam Hussein. Anche quest’uomo si è “laureato” a Camp Bucca, e attualmente è membro del consiglio militare dell’Is.
Un altro membro del consiglio militare che era prigioniero in Bucca è , conosciuto come Osama al-Bilawi (Abu Abdul_Rahman al-Bilawi). Egli è stato arrestato nel gennaio 2005 a Bucca, ed era anche un ex ufficiale dell’esercito di Saddam. Era il capo di un Consiglio della Shura dell’Is, prima di essere ucciso dall’esercito iracheno vicino a Mosul il 4 Giugno 2014.
Camp Bucca aveva ospitato anche Haji Samir, alias Haji Bakr, il cui vero nome è Samir Abed Hamad al-Obeidi al-Dulaimi, un colonnello dell’esercito dell’ex regime iracheno. E’ stato prigioniero a Bucca, e dopo il suo rilascio, si è unito ad al-Qaeda. Era l’uomo di punta dell’Isis in Siria, ma è stato ucciso ad Aleppo nella prima settimana di gennaio 2014.
Secondo le testimonianze di ufficiali americani che hanno lavorato nel carcere, l’amministrazione di Camp Bucca aveva preso alcune misure tra cui la segregazione dei prigionieri sulla base della loro ideologia. Questo, secondo gli esperti, ha permesso di arruolare direttamente e indirettamente le persone.
Ex detenuti hanno affermato in interviste televisive documentate che Camp Bucca era simile a una “scuola di al-Qaeda”, dove un estremista anziano dava lezioni di esplosivi e attacchi suicidi ai prigionieri più giovani. Un ex detenuto di nome Adel Jassim Mohammed ha detto che uno degli estremisti rimasto in prigione solo per due settimane, era stato in grado in questo breve tempo di reclutare 25 su 34 detenuti che erano lì, senza che funzionari militari statunitensi avessero fatto nulla per fermare gli estremisti.
Da considerare anche il fatto che la maggior parte di loro erano ufficiali dell’esercito baathista, il che spiega la facilità con cui il gruppo radicale sia stato in grado di infiltrarsi nei clan e convincere alcuni dei loro leader ad unirsi a loro.
Altro punto degno di nota è che nessuno dei leader usciti da camp Bucca e successivamente uccisi, siano stati uccisi in attacchi aerei degli Stati Uniti, ma piuttosto per mano dell’esercito iracheno, o dell’esercito siriano, o in lotta con altri gruppi armati. L’ultimo punto che non può essere ignorato è che la creazione dell’Isis ha notevolmente indebolito al-Qaeda.
Nel contesto di questi fatti legati ad una probabile “accademia terrorista” all’interno di una prigione, è facile che nascano “voci complottiste” sul collegamento tra l’Is e l’intelligence degli Stati Uniti o organizzazioni affiliate. Servirebbe un altro Edward Snowden o WikiLeaks per conoscere la verità sui loro rapporti misteriosi.
domenica 12 ottobre 2014
NON C'È PACE FRA GLI ULIVI DELLA PALESTINA
Samantha Comizzoli, attivista italiana che vive a Nablus, ci racconta:
È quasi impossibile racchiudere in unico report, mesi di storia della Palestina, perché ogni giorno qui ci sono pagine di storia/e da scrivere, purtroppo. Voglio, però, con questo mio porre a conoscenza dei fatti tutti coloro che credono che qui ora vi sia la “pace” perché israele ha smesso di bombardare Gaza.
In primis: la Palestina in origine va dall'Egitto alla Siria, ma per riportarla all'occupazione militare sionista/nazista israeliana diciamo che va dal mare (cioè dove c'è Gaza) al confine con la Giordania (cioè territori del '48 e West Bank). Questo per chiarire di quale “zona del mondo” stiamo parlando.
In West Bank c'è stata un escalation di violenza israeliana dall'aprile 2014, quando i prigionieri politici Palestinesi in detenzione amministrativa hanno intrapreso lo sciopero della fame. Stiamo parlando di circa 5000 persone, molti dei quali imprigionati senza reato e senza processo e detenuti, appunto, in detenzione amministrativa da anni. 62 giorni ad acqua e sale, alcuni di loro ricoverati in gravissime condizioni. Poteva essere la più potente denuncia agli occhi del mondo di che cos'è il nazismo e con le prove davanti agli occhi, 5000 prove (300 dei quali, bambini).
Ma, ecco, la svolta: vengono rapiti 3 coloni israeliani ad Al Kahlil. E da qui.......tutto esplode più del solito. I prigionieri politici passano in ultimo piano d'attenzione e interrompono lo sciopero, ma ciò che più conta è che israele inizia una campagna massiccia in tutta la West Bank. Raid notturni in ogni angolo, devastando case, rubando i soldi che venivano trovati nelle case e soprattutto..rapendo persone. In un mese vengono rapiti 2000 Palestinesi. Siamo a luglio 2014, vengono ritrovati i 3 coloni morti vicino al luogo dove erano stati rapiti. Ed ecco la seconda esplosione: israele inizia a bombardare Gaza. La West Bank in quei 50 giorni risponde con manifestazioni di sostegno ai Gazawi. Che cosa è successo in quelle manifestazioni? Altri Palestinesi rapiti, altri uccisi, altri feriti in modo grave o ridotti sulle sedie a rotelle.
E mi ricordo di quella sera quando dichiararono “vittoria” da Gaza..... Ovviamente eravamo tutti contenti che si fermavano i bombardamenti sui Palestinesi, ma qui....non era cambiata un virgola. Anzi....
1) I prigionieri politici Palestinesi che dovevano uscire dalla prigione in quel periodo sono stati “trattenuti” e la loro detenzione “rinnovata” perché stavano bombardando Gaza e la Resistenza rispondeva, quindi per “motivi di sicurezza” nessuno usciva.
2) Israele è intento a fermare più di prima la Resistenza, quindi c'è chi viene rapito perché è di Hamas, c'è chi viene rapito perchè è del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e c'è chi viene rapito perchè è della Jihad Islamica. Così, senza accusa, solo perchè “sei”.
3) L'80% dei Palestinesi rapiti con la scusa dei coloni o comunque in quel periodo, sono tutti detenuti ai quali viene rinnovata la detenzione amministrativa.
4) È avanzata pesantemente la presa di Gerusalemme, la Moschea di Al Aqsa è oramai il più dei giorni chiusa per i musulmani ed aperta per i coloni israeliani.
Oggi .. Ad Al Aqsa cancello moschea .. soldati sionisti assaltano donne palestinesi mentre cercavano di entrare nella moschea di Al Aqsa.
5) E' iniziata la consueta stagione delle olive e i coloni stanno, tutti i giorni, attaccando i contadini per impedirgli di raccogliere le olive.
6) Ogni notte venivano a rapire i Palestinesi, ora, vengono anche in pieno giorno.
7) Nei soli mesi di agosto/settembre (cioè durante quella che vi hanno venduto come “tregua”) sono stati rubati da israele terreni per costruire gli insediamenti illegali a: Gerusalemme, Betlemme, Nablus, Al Kahlil
Attualmente ci sono 7000 prigionieri politici Palestinesi in mano ai nazisti israeliani, dei quali 351 bambini. Ogni giorno il bollettino è con una media di circa 15 rapiti, case devastate al loro interno, scuole assaltate e studenti anch'essi terrorizzati dagli spari e poi rapiti. 1500 prigionieri soffrono di malattie gravi, ma non ricevono cure. Nella prigione di Ofer, Ramallah, il mese scorso hanno installato un dispositivo “disturbatore” che causa il cancro. Quasi tutte le visite dei famigliari sono annullate ed anche i colloqui con gli avvocati. Alcuni prigionieri sono in cella d'isolamento da anni.
Nel solo mese scorso, in West Bank e Gaza, ci sono stati 15 martiri (i 10 di Gaza erano feriti dai bombardamenti). Ad agosto il numero non era più basso. Ero presente ad alcuni di queste uccisioni. Sono stati ammazzati a sangue freddo, da cecchini, 4 di loro non avevano nemmeno 18 anni. Uno di loro, a Qalandja, gli spararono negli occhi, arrivò l'ambulanza per soccorrerlo...israele sparò sui paramedici, sull'ambulanza e su chi guidava l'ambulanza. Quell'uomo guidò l'ambulanza comunque, ferito, fino all'ospedale. Mohammed morì lungo il percorso. La maggior parte degli spari sono all'altezza del bacino, così quei feriti non potranno figliare...
(Il bambino del campo profughi Aida di Betlemme, al quale israele ha sparato nel cranio oggi. Si chiama Tamer Mahmoud Abu Salem (13 anni).)
Nelle prigioni israeliane ci sono, in questo momento, torture di ogni tipo che vengono inflitte anche a quei 351 bambini (il numero dei bambini rapiti sale quasi ogni giorno).
Tutto questo (e credetemi faccio fatica a dire notizie dettagliate perché potrei citarne un paio solo di oggi, ma farei un torto alle altre 7/8 vittime della stessa giornata) sta avvenendo mentre in occidente si crede che la Palestina abbia vinto e sia “tornata” la tranquillità. Non c'è mai stata una “tregua”, perchè l'occupazione nazista israeliana non è mai stata interrotta. Quindi, questa notte..... Nablus, Ramallah, Gerusalemme, Al Kahlil o forse Betlemme e Jenin verranno attaccate, altre PERSONE verranno rapite, altre PERSONE verranno uccise e domani mattina, come ogni giorno, sarò costretta a darne notizia. Anzi, ad “urlare” notizia, così come stanno urlando i Palestinesi.
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Non ho ancora tutti i nomi dei rapiti della scorsa notte, ma vi prego di divulgare intanto questi: Mohammed Zia ul-Fayez Badra 13 anni di Betunja (portato nella prigione di Ofer che è lì difronte); Dean Massoud Merhi, prso al checkpoint di Howara, Nablus; Salim Abu Saud, Nablus; Hussam Tammam Khalid (29) anni di Tulkarem, preso al checkpoint del quale avevo già dato notizia ieri sera.
(Samantha Comizzoli)
sabato 11 ottobre 2014
ISIS creato da Usa, Israele e alcuni paesi arabi
Non si può pretendere di combattere l’Isis, continuando ad inviare aiuti ed armi ai cosidetti ‘ribelli’ siriani. E’ una “follia” che vanifica tutti i bombardamenti della coalizione internazionale “già per altro rivelatisi abbastanza inutili”, afferma in un’intervista ad ANSAmed (http://ansamed.ansa.it/ansamed/it/notizie/stati/italia/2014/10/10/isis-cristiani-doriente-mostro-creato-da-politica-usa_4efcf097-9cb5-4dec-9912-68008cd04ecd.html) padre Mtanious Hadad, rappresentante a Roma della Chiesa Melchita e cittadino siriano, che in veste di cristiano orientale si sente di parlare anche a nome delle comunità cristiane orientali della Siria e dell’Iraq, “paesi ora purtroppo accomunati dallo stesso boia”.
“L’Isis è un mostro creato dagli Stati Uniti, da Israele, da alcuni paesi arabi, con l’obiettivo di colpire il governo di Baghdad in un primo momento e poi quello del presidente Assad”, spiega il religioso.
La missione dei jihadisti, “i quali non hanno nulla a che spartire con il vero Islam”, è quello di “frantumare Stati, di colpire la laicità e la convivenza tra le fedi”. “In Siria – dice padre Hadad – non esiste alcuna guerra civile. La guerra è tra i siriani e i terroristi. Non ci sono ribelli buoni o democratici: tutti hanno le armi e le usano per distruggere uno Stato laico, con un Presidente eletto dal suo popolo”.
“Stati Uniti, Israele, paesi del Golfo, tra cui in prima fila Qatar e Arabia Saudita hanno contribuito con soldi, armi, addestramento a creare – secondo Hadad – i gruppi di combattenti anti-Assad che compongono l’Isis. Si tratta di mercenari assetati di sangue che provengono da 80 paesi. A pagare il prezzo più alto del terrorismo fomentato sopratutto dall’estero sono stati i cristiani, sottolinea Hadad,che è anche archimandrita e Rettore della Basilica di Santa Maria in Cosmedin a Roma. “In Iraq, i cristiani erano un milione e 500 mila ed ora sono rimasti in 300 mila. Anche in Siria, i cristiani più ricchi sono già emigrati negli Stati Uniti o in Australia. Prima della guerra, la comunità cristiana rappresentava il 10% della popolazione, ora si calcola che sia scesa all’8%”. Molti cristiani siriani si trovano nei paesi circostanti, con la speranza di tornare. Altri sono rimasti in patria perche’ hanno figli o parenti nell’esercito nazionale.
“Tuttavia – commenta ancora l’apocrisario melchita – se questa situazione si protrarrà ancora a lungo, vi è un pericolo concreto che i cristiani siano costretti a lasciare la loro terra per sempre, la terra in cui vivono da duemila anni”. Padre Hadad si chiede come sia possibile che Obama parli di “tre anni” per estirpare l’Isis. “una coalizione internazionale contro un gruppo di 30 mila persone. E’ uno scherzo?”
A suo avviso, per sconfiggere il terrorismo in Medioriente, serve piuttosto “una presa di coscienza generale e l’umiltà di riconoscere i propri errori”. “Le condizioni per mettere fine ad una guerra sporca che va avanti ormai da più di tre anni non sono difficili da individuare: interrompere il flusso di armi e denaro ai jihadisti, fermare il passaggio di terroristi dalla Turchia, non comprare il petrolio messo in vendita dall’Isis sul mercato nero, sempre attraverso la Turchia”. “La Siria in un mese tornerebbe alla pace, se riuscisse a liberarsi dal terrorismo straniero“. Ed anche per i cristiani della regione – conclude padre Hadad – ci sarebbe una speranza in più di rimanere nella loro terra. (ANSAmed)
Non è la prima volta che in Occidente si sente parlare di ISIS: da più di due anni l’ISIS combatte nella guerra civile siriana contro il presidente sciita Bashar al Assad, e da circa un anno ha cominciato a combattere non solo le forze governative siriane ma anche i ribelli più moderati, creando di fatto un secondo fronte di guerra. L’ISIS è un’organizzazione molto particolare: definisce se stesso come “stato” e non come “gruppo”. Usa metodi così violenti che anche al Qaida di recente se ne è distanziata. Controlla tra Iraq e Siria un territorio esteso approssimativamente come il Belgio, e lo amministra in autonomia, ricavando dalle sue attività i soldi che gli servono per sopravvivere. Teorizza una guerra totale e interna all’Islam, oltre che contro l’Occidente, e vuole istituire un califfato non si sa bene dove: ma i suoi capi sono molto ambiziosi.
Oggi l’ISIS è arrivato a meno di 100 chilometri dalla capitale irachena Baghdad. La sua avanzata, rapida e inaspettata, ha fatto emergere i moltissimi problemi dello stato iracheno e ha intensificato le tensioni settarie tra sciiti e sunniti, alimentate negli ultimi anni dal pessimo governo del primo ministro sciita iracheno Nuri al-Maliki. Per capire l’ISIS – da dove viene, che strategia ha, dove può arrivare – abbiamo messo in ordine alcune cose essenziali da sapere. Che tornano utili per capire che diavolo sta succedendo in Medioriente, e non solo in Iraq e in Siria.
Da dove viene l’ISIS? Che c’entra al Qaida?
Per capire la storia dell’ISIS serve anzitutto introdurre tre personaggi molto noti tra chi si occupa di terrorismo e jihad: il primo, conosciuto da tutto il mondo per gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, è Osama bin Laden, uomo di origine saudita che per lungo tempo è stato a capo di al Qaida; il secondo è un medico egiziano, Ayman al-Zawahiri, che ha preso il posto di bin Laden dopo la sua uccisione in un raid americano ad Abbottabad, in Pakistan, il 2 maggio 2011; il terzo è Abu Musab al-Zarqawi, un giordano che dagli anni Ottanta e poi Novanta – cioè fin dai tempi della guerra che molti afghani combatterono contro i sovietici che avevano occupato il territorio dell’Afghanistan – era stato uno dei rivali di bin Laden all’interno del movimento dei mujaheddin, e poi anche di al Qaida.
Nel 2000 Zarqawi decise di fondare un suo proprio gruppo con obiettivi diversi da quelli di al Qaida “tradizionale”, diciamo. Al Qaida era nata sull’idea di sviluppare una specie di legione straniera sunnita, che avrebbe dovuto difendere i territori abitati dai musulmani dall’occupazione occidentale (bin Laden aveva invocato come punto di partenza della sua guerra santa il dispiegamento di mezzo milione di soldati statunitensi nella Prima Guerra del Golfo, nel 1990, intervenuti per ricacciare in Iraq l’esercito di Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait). Ma Zarqawi aveva altro in testa: voleva provocare una guerra civile su larga scala e per farlo voleva sfruttare la complicata situazione religiosa dell’Iraq, paese a maggioranza sciita ma con una minoranza sunnita al potere da molti anni con Saddam Hussein.
L’ideologia e la strategia di Zarqawi
L’obiettivo di Zarqawi, che si è definito meglio anche con l’intervento successivo di diversi ideologi jihadisti, era creare un califfato islamico esclusivamente sunnita. Questo punto è molto importante, perché definisce anche oggi la strategia dell’ISIS e ne determina le sue alleanze in Iraq. In un libro pubblicato nel 2004, e scritto dallo stratega jihadista Abu Bakr Naji, è spiegata piuttosto bene la strategia di Zarqawi: portare avanti una campagna di sabotaggi continui e costanti a siti turistici e centri economici di stati musulmani, per creare una rete di “regioni della violenza” in cui le forze statali si ritirassero sfinite dagli attacchi e in cui la popolazione locale si sottomettesse alle forze islamiste occupanti.
Nella pratica le cose sono andate così. Nel 2003, solo cinque mesi dopo l’invasione statunitense in Iraq, il gruppo di Zarqawi fece esplodere un’autobomba in una moschea nella città irachena di Najaf durante la preghiera del venerdì: rimasero uccisi 125 musulmani sciiti, tra cui l’ayatollah Muhammad Bakr al-Hakim, che avrebbe potuto garantire una leadership moderata al paese. Fu un attacco violentissimo. Negli anni gli attentati andarono avanti e nel 2004 Zarqawi sancì la sua vicinanza con al Qaida chiamando il suo gruppo Al Qaida in Iraq (AQI): nonostante la differenza di vedute, l’affiliazione garantiva vantaggi a entrambe le parti, per esempio permetteva a bin Laden di avere una forte presenza in Iraq, paese allora occupato dalle forze americane. Nel frattempo, nel 2006, Zarqawi era stato ucciso da una bomba americana, e il suo posto era stato preso da Abu Omar al-Baghdadi (fu ucciso poi nel 2010, e il suo posto fu a sua volta preso da Abu Bakr al-Baghdadi).
L’ISIS di al-Baghdadi e il califfato islamico
Il gruppo di al-Baghdadi subì un notevole indebolimento nel 2007 a seguito del parziale successo della strategia di controinsurrezione attuata nel 2007 in Iraq dal generale statunitense Petraeus, che prevedeva una maggiore vicinanza e solidarietà delle truppe con la popolazione e che contribuì a ridurre le violenze settarie e il ruolo di al Qaida per almeno due anni. La strategia di Petraeus si basava su una collaborazione con le tribù sunnite locali, che mal sopportavano l’estremismo di al Qaida: questa strategia oggi sembra inapplicabile, a causa delle politiche violente e settarie che il primo ministro sciita Nuri al-Maliki ha attuato contro i sunniti negli ultimi quattro anni, compromettendo per il momento qualsiasi possibilità di collaborazione.
Nel 2011 il gruppo ricominciò a rafforzarsi, riuscendo tra le altre cose a liberare un certo numero di prigionieri detenuti dal governo iracheno. Nell’aprile del 2013 AQI cambiò il suo nome in Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), dopo che la guerra in Siria gli diede nuove possibilità di espansione anche in territorio siriano. Il fatto di includere la regione del Levante nel nome del gruppo (cioè l’area del Mediterraneo orientale: Siria, Giordania, Palestina, Libano, Israele e Cipro) era l’indicazione di un’espansione delle ambizioni dell’ISIS, ma non ne spiegava del tutto gli obiettivi finali. Zack Beauchamp ha scritto una lunga e precisa analisi dell’ISIS sul sito di Vox, e tra le altre cose ha provato a capire in quali territori il gruppo ha intenzione di istituire un califfato islamico: con l’aiuto di alcune mappe, Beauchamp ha mostrato come gli obiettivi dell’ISIS siano confusi, mutabili nel tempo ma estremamente ambiziosi (in una, per esempio, tra i territori su cui l’ISIS ambisce a imporre il suo controllo c’è anche il Nordafrica).
Quanti sono, quanto sono cattivi e cosa vogliono, quelli dell’ISIS?
Charles Lister, uno dei più esperti analisti di jihadismo in Siria e Iraq, ha scritto su CNN che l’ISIS in Iraq è formato da circa 8mila uomini, un numero di combattenti insufficienti di per sé a prendere il controllo delle città conquistate negli ultimi dieci giorni nel nord e nell’est dell’Iraq. Infatti l’ISIS non ha fatto tutto da solo, ma si è alleato con le tribù sunnite e con gruppi baathisti (cioè sostenitori del partito Baath, lo stessa cui apparteneva Saddam Hussein) dell’Iraq, che hanno un solo obiettivo in comune con il gruppo di al-Baghdadi: rimuovere dal potere il primo ministro sciita iracheno Nuri al-Maliki. Come ha sintetizzato chiaramente il Washington Post, le città ora sotto il controllo dei ribelli sunniti sono 27.
Lister ha scritto che normalmente alleanze di questo genere – formate da gruppi così diversi – non possono stare insieme a lungo, a meno che non si mantenga un clima di contrapposizione totale. In Iraq questo clima è alimentato, tra le altre cose, anche da una delle caratteristiche distintive dell’offensiva dell’ISIS: la brutalità dei suoi attacchi. La guerra dell’ISIS sembra una “guerra totale” – come dimostra il massacro di soldati sciiti a Tikrit, la città natale di Saddam Hussein. Sul New Yorker Lawrence Wright ha descritto così il modus operandi del gruppo:
«Bin Laden e Zawahiri avevano sicuramente una certa familiarità con l’uso della violenza contro i civili, ma quello che non riuscirono a capire fu che per Zarqawi e la sua rete la brutalità – particolarmente quando diretta verso altri musulmani – era il punto centrale dell’azione. L’idea di questo movimento era l’istituzione di un califfato che avrebbe portato alla purificazione del mondo musulmano»
La brutalità dell’ISIS era già stata notata da al Qaida nella guerra in Siria: dalla fine del 2013 il capo di al Qaida, Zawahiri, cominciò a chiedere all’ISIS di rimanere fuori dalla guerra (in Siria al Qaida era già “rappresentata” dal gruppo estremista Jabhat al-Nusra). Al-Baghdadi però si rifiutò e nel febbraio del 2014 Zawahiri “espulse” l’ISIS da al Qaida («Fu la prima volta che un leader di un gruppo affiliato ad al Qaida disubbidiva pubblicamente», ha detto un esponente qaedista). In altre parole l’ISIS si era dimostrata troppo violenta anche per al Qaida, soprattutto perché prendeva di mira non solo le truppe di Assad ma anche altri gruppi dello schieramento dei ribelli sunniti. Alla fine del 2013 l’ISIS, rafforzato dalle vittorie militari in Siria, tornò in Iraq e conquistò le città irachene di Falluja e Ramadi. E poi le altre, negli ultimi dieci giorni.
Come si mantiene l’ISIS? E che possibilità ha di vincere?
A differenza di altri gruppi islamisti che combattono in Siria, l’ISIS non dipende per la sua sopravvivenza da aiuti di paesi stranieri, perché nel territorio che controlla di fatto ha istituito un mini-stato che è grande approssimativamente come il Belgio: ha organizzato una raccolta di soldi che può essere paragonata al pagamento delle tasse; ha cominciato a vendere l’elettricità al governo siriano a cui aveva precedentemente conquistato le centrali elettriche; e ha messo in piedi un sistema per esportare il petrolio siriano conquistato durante le offensive militari. I soldi raccolti li usa, tra le altre cose, per gli stipendi dei suoi miliziani, che sono meglio pagati dei ribelli siriani moderati o dei militari professionisti, sia iracheni che siriani: questo gli permette di beneficiare di una migliore coesione interna rispetto a qualsiasi suo nemico statale o non-statale che sia. Come mostra una mappa risalente al 2006 trovata da Aaron Zelin, ricercatore al Washington Institute for Near East Policy, non si può dire che l’ISIS sia privo di una strategia economica precisa: già diversi anni fa aveva pensato a come sfruttare i giacimenti petroliferi per sostenersi finanziariamente.
In pratica l’ISIS è riuscito finora a massimizzare ciò che gli ha offerto la guerra in Siria. La stessa cosa potrebbe però non ripetersi in Iraq, per almeno due motivi. Il primo è che l’ISIS potrebbe in qualche maniera “fallire” economicamente, perché le sue entrate – che derivano soprattutto da attività illegali a Mosul – potrebbero non essere più sufficienti a sostenere la rapida espansione territoriale di questi ultimi giorni. Una possibilità è che l’ISIS riuscisse a sfruttare il petrolio iracheno come già fa in Siria nelle aree sotto il suo controllo: in Iraq tuttavia le zone che potrebbe plausibilmente conquistare non hanno giacimenti estensive di petrolio, e le infrastrutture necessarie per il suo sfruttamento non sono sviluppate come quelle siriane.
Il secondo è che l’aggravarsi della crisi irachena ha spinto il governo iraniano a organizzare le proprie forze e intervenire. L’Iran ha già mandato in Iraq circa 500 uomini delle forze Quds, il suo più temibile corpo d’élite appartenente alla Guardia Rivoluzionarie (forza militare istituita dopo la rivoluzione del 1979), specializzato in missioni all’estero e già attivo da tempo in Iraq. Le forze Quds sono probabilmente il corpo militare più efficiente dell’intero Medioriente, molto diverse dal disorganizzato esercito iracheno che è scappato da Mosul per non affrontare l’avanzata dell’ISIS. Con l’intervento dell’Iran e di altre milizie sciite che fanno riferimento a potenti leader religiosi sciiti locali, è difficile pensare che l’ISIS possa avanzare ulteriormente verso Baghdad – che tra l’altro è una città a grandissima maggioranza sciita – mentre è più facile che provi a rafforzare il controllo sulle parti di territorio iracheno a prevalenza sunnita che è già riuscito a conquistare (i rischi di un massiccio intervento iraniano in Iraq ci sono eccome, comunque, ne avevamo parlato qui).
I miliziani dell'ISIS hanno conquistato una delle maggiori raffinerie dell'Iraq, a 200 chilometri dalla capitale (che sembra prepararsi all'arrivo della guerra)
i combattenti dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) – gruppo estremista sunnita che opera sia in Iraq che in Siria – stanno avanzando verso Baghdad, la capitale dell’Iraq. Martedì sono arrivati a prendere il controllo del 75 per cento di una delle più grandi raffinerie del paese, Baiji, che si trova a circa 200 chilometri a nord-ovest di Baghdad. Baiji era stata circondata dai miliziani islamisti lo scorso martedì e all’alba di ieri la raffineria è stata attaccata con mortai e mitragliatrici. Un magazzino di pezzi di ricambio è stato completamente distrutto, la raffineria è stata chiusa e i dipendenti stranieri sono stati evacuati.
La raffineria di Baiji costituisce poco più di un quarto dell’intera capacità di raffinazione del paese: fornisce principalmente benzina e combustibile per le centrali elettriche. Dopo la sua chiusura, resta solo il carburante necessario per soddisfare i bisogni interni per un mese. Baiji si trova sulla strada tra Tikrit (città natale di Saddam Hussein e capoluogo della provincia di Salaheddine) e Mosul (seconda città più grande dell’Iraq e capoluogo della provincia di Ninawa): entrambe le città sono state conquistate dall’ISIS negli ultimi giorni, così come altre aree nelle province di Diyala, a est, e di Kirkuk, a nord.
Martedì 17 giugno c’è stata anche un’altra pesante offensiva a Baqubah, già parzialmente occupata dall’ISIS: Baqubah si trova a soli 60 chilometri da Baghdad e sulla principale autostrada che porta alla capitale. Un’eventuale presa di Baqubah – l’esercito è riuscito finora a respingere l’attacco – aprirebbe la strada ai miliziani islamisti verso la capitale. Da questa mappa è piuttosto chiara la situazione:
Nel frattempo, scrive il Wall Street Journal, a Baghdad sembra esserci un clima di paura e attesa: le strade sempre intasate di traffico sono più vuote del solito e i negozianti lamentano che gli affari non vanno molto bene. In vari quartieri della città si iniziano vedere nuovi posti di blocco, così come agenti in uniforme o in borghese. Per molti residenti, lo scenario attuale ricorda quello del 2003, poco prima dell’invasione angloamericana. BBC ha anche mostrato delle foto che mostrano gli abitanti di Baghdad fare scorta di cibo e altri beni di prima necessità.
L’ISIS è un gruppo estremista sunnita il cui obiettivo primario è l’istituzione di un califfato islamico nella regione. Oltre all’ISIS ci sono anche gruppi sunniti che non condividono gli stessi obiettivi sulle sorti del paese, e che si sono mobilitati con un fine più circoscritto, cioè togliere il potere agli sciiti. Fanno parte di questa categoria anche alcuni gruppi di miliziani che appoggiavano l’ex presidente sunnita Saddam Hussein e che furono sconfitti dalle operazioni di sicurezza delle truppe statunitensi in territorio iracheno negli anni successivi all’invasione del 2003.
giovedì 9 ottobre 2014
Il villaggio "Umm Al Nasser" - GAZA
CINQUEMILA ABITANTI DI QUESTO VILLAGGIO DELLA STRISCIA DI GAZA, MASSACRATO DALLA GUERRA, SENZA UNA GOCCIA D'ACQUA DA GIORNI E GIORNI.
Umm al Nasser, Gaza
Tè, carri armati e discorsi di ricostruzione ...
8 ottobre 2014 by irishingaza
Tra scene di totale devastazione, è sempre prevalente, sempre esistente l'umiltà, l'umanità, la capacità di recupero che è la Palestina. Siamo tornati ieri al villaggio di Umm al Nasser nel nord di Gaza. Un villaggio che Israele, nei suoi ultimi attacchi su Gaza, ha cercato di annientare e ci è quasi riuscito.
Fa caldo e c'è polvere, tutto intorno a noi ci sono i resti di una guerra ingiusta, e ancora i bambini giocano, e ci sediamo, come al solito, a gambe incrociate sulla sabbia e beviamo un tè dolcissimo, e parliamo e ascoltiamo e ammiriamo in soggezione l'ospitalità di questo villaggio, dove stiamo passando così tanto tempo in questi giorni.
Come di consueto, ci sediamo all'ombra anche se ci sono state volte, in cui ci siamo seduti in casa per ripararci da un sole cocente o dal vento e dalla pioggia ... E non è un'opzione oggi, a meno che non si salga attraverso le macerie e cerchiamo invano un camera con un tetto rimasto. Più tardi ci aggiriamo dove la Moschea stava in piedi, passiamo la macchina schiacciata da un carro armato israeliano nella zona in cui verrà perforato il nuovo pozzo, vediamo case dopo case parzialmente o totalmente distrutte, a 150 famiglie in questo villaggio da solo non è rimasta una casa . Le case che rimangono sono piene di fori di granate, fori di proiettili o pareti percosse dai carri armati. Alcuni stanno con gli amici o i parenti, alcuni si sono spostati fuori dal villaggio in appartamenti affittati in città vicine e alcuni hanno appena eretto tende di fortuna di teli di plastica e tela, nelle rovine delle loro case di famiglia. Per coloro che se ne sono andati, è quasi impossibile tornare ogni giorno per cominciare a salvare ciò che resta delle loro case e terre.
Più avanti nella strada di sabbia c'è il Kindergarten ... o meglio c'era il Kindergarten. Questo era un asilo sponsorizzato dall'Italia per i bambini in età prescolare di un villaggio di 5000 abitanti. Appiattito! Tutto ciò che rimane è un cratere enorme, polvere, pezzi contorti di metallo ... e una bandiera bruciata e lacerata della UE che in origine sventolava dal palazzo ... (non c'era rimasto nessuno nel paese quando gli Israeliani fecero saltare questa scuola ... è l'educazione del bambino una minaccia per la sicurezza nazionale di Israele?)
L'undicesimo giorno del massacro, gli abitanti del villaggio sono stati tutti costretti ad evacuare. Le truppe di terra israeliane hanno effettivamente invaso il villaggio. Il villaggio si trova proprio accanto al confine con Israele e la linea del fronte per Gaza. I carri armati rotolarono sui raccolti, le ruspe hanno appiattito tutto ciò che attraversavano ... e 50 giorni o giù di lì senza acqua significava che ciò che i carri armati, le ruspe, i razzi e le fucilazioni non avevano già distrutto, il sole crudele seccava come un croccante .... Non è rimasto nulla. Le piante di peperoncino si disintegrano tra le dita, il mais è marrone e polveroso, e il terreno è sabbia .... Distrutto. I limoni rotti, bruciati,marci. Molti dei loro animali sono stati uccisi, cammelli, pecore, mucche ... un uomo da solo ha perso tutti i suoi raccolti, tutti i suoi animali e la sua casa è stata distrutta ...... ..
Ma già si sta iniziando a ripiantare ... non hanno scelta. L'ONU è venuta, ha preso appunti, e non è più tornata. .. Le ONG non si sono presentate. Noi l'abbiamo fatto, grazie al vostro sostegno e alla vostra donazione... Abbiamo promesso un pozzo e noi perforiamo un pozzo!
Crediamo che l''acqua è un diritto, crediamo che la vita è un diritto ... e crediamo che l'acqua è un diritto alla vita. Gli abitanti del villaggio ripiantano i loro campi, lentamente ... I bambini potranno tornare a una classe da qualche parte e gli abitanti del villaggio troveranno un modo per tornare ... ma non senza acqua. Non c'è acqua nel villaggio, 5000 persone si stanno basando su camion che girano fino a erogare acqua sporadicamente.
C'E' CHI SI STA DANDO DA FARE PER COSTRUIRE UN POZZO, MA HA BISOGNO DI AIUTO.
Cominciamo a lavorare questa settimana ... vi aggiorneremo continuamente con notizie, foto, ecc, ma siamo a corto di fondi necessari per completare ......... .Siamo vicini, ma ancora a corto. Per favore, a nome degli abitanti del villaggio di Umm al Nasser, a nome di Irish a Gaza, per conto di solo 2 persone, Derek e Jenny Graham e per conto di ciò che resta dell'umanità, fate quello che potete. Donate, se potete, partecipate, anche se non è possibile ...
lunedì 6 ottobre 2014
ACCOGLIENZA IMMIGRATI IN ITALIA
I Centri dell’immigrazione
Le strutture che accolgono e assistono gli immigrati irregolari
LampedusaLe strutture che accolgono e assistono gli immigrati irregolari sono distinguibili in tre tipologie.
- Centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA)
- Centri di accoglienza (CDA) e Centri di accoglienza per richiedenti asilo (CARA)
- Centri di identificazione ed espulsione (CIE)
I CENTRI DI PRIMO SOCCORSO E ACCOGLIENZA (CPSA)
Sono strutture allestite nei luoghi di maggiore sbarco, dove gli stranieri vengono accolti e ricevono le prime cure mediche, vengono fotosegnalati, viene accertata l’eventuale intenzione di richiedere protezione internazionale e vengono smistati verso altri centri.
I centri attualmente operativi sono:
• Agrigento, Lampedusa – (Centro di primo soccorso e accoglienza)
• Cagliari, Elmas – (Centro di primo soccorso e accoglienza, con funzioni di CARA)
• Lecce - Otranto (Centro di primissima accoglienza)
• Ragusa, Pozzallo (Centro di primo soccorso e accoglienza)
CENTRI DI ACCOGLIENZA (CDA) E CENTRI ACCOGLIENZA PER RICHIEDENTI ASILO (CARA)
Cartina centri CARAI CDA sono strutture destinate a garantire una prima accoglienza allo straniero irregolare rintracciato sul territorio nazionale. L’accoglienza nel centro è limitata al tempo strettamente necessario per stabilire l'identità e la legittimità della sua permanenza sul territorio o per disporne l'allontanamento.
I CARA sono strutture nelle quali viene inviato e ospitato lo straniero richiedente asilo privo di documenti di riconoscimento o che si è sottratto al controllo di frontiera, per consentire l’identificazione o la definizione della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato.
I centri che assolvono a entrambe le funzioni di CDA e CARA sono:
• Gorizia, Gradisca d’Isonzo
• Ancona, Arcevia
• Roma, Castelnuovo di Porto
• Foggia, Borgo Mezzanone
• Bari, Palese
• Brindisi, Restinco
• Lecce, Don Tonino Bello
• Crotone, Loc. S.Anna
• Catania, Mineo
• Ragusa, Pozzallo
• Caltanissetta, Contrada Pian del Lago
• Agrigento, Lampedusa
• Trapani, Salina Grande
• Cagliari, Elmas
I CENTRI DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE (CIE)
Cartina centri CIEIn precedenza chiamati Centri di permanenza temporanea ed assistenza, sono strutture destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, degli stranieri extracomunitari irregolari e destinati all'espulsione. Previsti dall’art. 14 del Testo Unico sull’immigrazione, tali centri si propongono di evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul territorio e di consentire la materiale esecuzione, da parte delle Forze dell’ordine, dei provvedimenti di espulsione emessi nei confronti degli irregolari. Il Decreto-Legge n. 89 del 23 giugno 2011, convertito in legge n. 129/2011, ha fissato il termine massimo di permanenza degli stranieri in tali centri a 18 mesi complessivi.
Attualmente, i centri sono:
• Torino
• Roma
• Bari
• Trapani
• Caltanissetta
L’operatività dei centri e la loro capienza può essere soggetta a variazioni in relazione ad eventuali lavori di manutenzione, ordinaria o straordinaria.
I CENTRI SONO PIANIFICATI DALLA DIREZIONE CENTRALE DEI SERVIZI CIVILI PER L’IMMIGRAZIONE E L’ASILO
Sono gestiti a cura delle Prefetture-Utg tramite convenzioni con enti, associazioni o cooperative aggiudicatarie di appalti del servizio.
Le prestazioni e i servizi assicurati dalle convenzioni sono:
1) Servizio di gestione amministrativa e di minuta sussistenza e manutenzione
2) Assistenza alla persona:
vitto, alloggio, fornitura effetti personali ecc.;
assistenza sanitaria
assistenza psico-sociale
mediazione linguistico culturale.
3) Servizio di pulizia ed igiene ambientale
4) Manutenzione della struttura e degli impianti
Aggiornato all'1.10.2014
Fonte: dipartimento per le Libertà civili e l'Immigrazione
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IN ITALIA le strutture che accolgono e assistono gli immigrati irregolari, secondo i dati forniti dal ministero dell'Interno, sono distinguibili in tre tipologie: Centri di accoglienza (Cda), Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara), Centri di identificazione ed espulsione (Cie).
I Centri di accoglienza (Cda, noti anche come Cpa, Centro prima accoglienza o Cspa, Centro di soccorso e prima accoglienza) "sono strutture destinate a garantire un primo soccorso allo straniero irregolare rintracciato sul territorio nazionale". Il Viminale precisa che l'accoglienza nel centro "è limitata al tempo strettamente necessario per stabilire l'identità e la legittimità della sua permanenza sul territorio o per disporne l'allontanamento".
Oltre a Lampedusa (Agrigento) con 804 posti, Elmas (Cagliari) 200 posti e Pantelleria (Trapani) 25 posti, che sono Centri di primo soccorso e accoglienza, i centri attualmente operativi sono Bari Palese, area areoportuale con 744 posti; Restinco (Brindisi) 180 posti; Caltanissetta, Contrada Pian del Lago 360 posti; Crotone, località Sant'Anna 1202 posti; Foggia, Borgo Mezzanone 342 posti; Gradisca d'Isonzo (Gorizia) 112 posti; Cassibile (Siracusa) 200 posti.
I Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) sono "strutture nelle quali viene inviato e ospitato per un periodo variabile di 20 o 35 giorni lo straniero richiedente asilo privo di documenti di riconoscimento o che si è sottratto al controllo di frontiera, per consentire l'identificazione o la definizione della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato".
I centri attualmente operativi sono a Caltanissetta, Contrada Pian del Lago con 96 posti, Crotone, località Sant'Anna 256 posti, Foggia, Borgo Mezzanone 198 posti, Gradisca d'Isonzo 150 posti, Milano, via Corelli 20 posti, Trapani, Salina Grande 260 posti. Con decreto del ministro dell'Interno vengono utilizzati per le finalità dei Centri di accoglienza per richiedenti asilo anche i Cda di Bari e Siracusa.
I C.I.E. Centri di identificazione ed espulsione (Cie) spiega il ministero dell'Interno, sono "gli ex Centri di permanenza temporanea (Cpt) e assistenza: strutture destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, degli stranieri extracomunitari irregolari e destinati all'espulsione". Tali centri "si propongono di evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul territorio e di consentire la materiale esecuzione, da parte delle forze dell'ordine, dei provvedimenti di espulsione emessi nei confronti degli irregolari". In questi centri il termine massimo di permanenza degli stranieri "è di 60 giorni complessivi (30 giorni, più ulteriori 30 su richiesta del questore e conseguente provvedimento di proroga da parte del magistrato).
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