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lunedì 10 febbraio 2014

HEBRON - L'INFERNO IN TERRA

Quando arrivo ad Hebron, son già pronta al dolore. Da quel che ho sentito, letto, studiato, so che questa città sarà la mia tappa all’Inferno, che è in Terra e non nell’aldilà, come ci hanno insegnato a credere per alleggerirci della colpa di esserne direttamente responsabili, in vita e non in morte, con pene umane e non con contrappassi divini. I miei nervi son tesi, i muscoli contratti, nei presagi dell’incubo che mi appresto a vivere il mio respiro si prepara ad una lunga apnea. Hebron è la Palestina, è la sua storia, è l’apartheid. La città che toglie tutti i dubbi in merito a quale delle due parti sostenere, e che ti si scava dentro, diventando una cicatrice che si riaprirà tutti i giorni al tuo risveglio. Mentre salutiamo Issa e i ragazzi della sua fondazione, e un abitante del luogo che incede zoppicando sulla sua gamba di legno, regalo dei soldati israeliani, e due bambine e un bambino avvolti nelle loro grandi sciarpe palestinesi, sulle guance orgogliosamente dipinta la bandiera della loro nazione, chiedo al mio cuore di sopportare tutto quello che vedrà con calma e coraggio. Entriamo in H2, la città vecchia occupata dai coloni, che ancora gli parlo: gli dico d’esser forte e farsi carico di tutto, di non farmi piangere ma prendersi dentro tutta la sofferenza della città. Non varrà, la mia opera di convincimento, a evitarmi i crampi allo stomaco e a risparmiarmi le lacrime che la sera stessa inevitabilmente scenderanno, ma il mio cuore mi assicura due ore di resistenza. Non gli chiedo altro che di restare umano.
“Benvenuti nella città fantasma!” esclama Issa, di fronte a due soldati. I militari sono ovunque, in H2. Oltre venti check points sparsi per Hebron rendono la quotidianità dei Palestinesi un’esistenza a singhiozzo, perennemente con carta d’identità in mano, nell’ansia costante di ricevere nuove proscrizioni, inaspettate accuse, o di cadere vittime di arresti decisi a caso, arbitrariamente. E’ tutto immobile e muto, per le strade. Come una maledizione, il silenzio si è abbattuto sui vicoli dell’antica Al Khalil, questo il nome arabo, il nome vero, della città. Dove un tempo era la vita, ora è piombato un vuoto paradossale, da quando i coloni hanno preso le case dei Palestinesi, gli arabi hanno dovuto lasciare le loro strade, e le loro stesse automobili non possono circolare in questa zona. Ci sono così tanti divieti per i loro veicoli a targa verde, che persino le ambulanze palestinesi, per raggiungere i pazienti da soccorrere, son costrette ad allungare il tragitto di parecchi chilometri, mentre i parenti delle vittime le chiamano e richiamano, anche cinque o sei volte, sperando che l’attesa non si riveli vana. Un’auto a targa gialla, questa libera di muoversi ovunque, sfreccia accanto al nostro gruppo: il conducente israeliano e il passeggero accanto a lui, vedendoci, iniziano a battere i pugni contro i finestrini e urlarci insulti e minacce in ebraico. La presenza degli internazionali ad Hebron non è gradita: visitare questa città significa diventare testimoni dell’occupazione e delle violenze subite dai Palestinesi, e dei crimini internazionali che Israele, attraverso i coloni fanatici che ci vivono e i suoi soldati arroganti, ogni giorno commette, impunito, in questa terra. Gli ebrei che ci vivono lo sanno, non è bene che il mondo veda, e per questo picchiano sui vetri, e già la voce del nostro passaggio si diffonde per tutta la città.
Mentre camminiamo per i vicoli deserti, si sentono delle esplosioni in qualche strada parallela, poi un forte odore di gas impregna l’aria. E’ polvere da sparo, i sensi abituati alla pace imparano in fretta a riconoscere la guerra e il suo tanfo. Tutti, nel gruppo, si coprono bocca e naso. Ma i Palestinesi che ci guidano non lo fanno, ci scortano come fossimo dei bambini, guardandoci le spalle, senza curarsi dell’odore. E allora io li imito: mi sembrerebbe vile coprirmi il volto per non respirare l’aria con cui loro convivono. Mi ripeto che se a loro non dà fastidio, neanche a me farà male, mentre le narici mi bruciano tanto da farmi temere che possano sanguinare e gli occhi prendono a lacrimare. Resisto, guardo Issa a naso scoperto e resisto, facendo brevi respiri e trattenendo più che posso il fiato. Usciamo finalmente in un’altra strada, dove l’odore della polvere da sparo non è arrivato: appena in tempo per salvarmi dalla vigliaccheria che stavo per compiere, tirandomi su la sciarpa.
Eccoci all’imbocco di Shuhada Street. Ecco il Sud Africa dell’apartheid, le riserve indiane, la via dei gulag, gli autobus per i bianchi e gli autobus per i neri nel Mississipi. In ogni ingiustizia in qualsiasi angolo della terra son condensate tutte le ingiustizie commesse nella storia dall’umanità. Shuhada Street porta sulle sue pietre, sulle sue case, sulle imposte chiuse, tutte le brutture che negano all’uomo il diritto di definirsi tale. Ci fermiamo all’inizio della strada, di fronte a un check point di tre soldati che avranno circa la mia età. Dal ’94 le auto arabe non possono percorrere questa via, che era la più importante, quella dei commerci e della vita, che congiungeva il nord col sud di Al Khalil. Dal 2000, poi, la definitiva sanzione dell’apartheid ad opera della democrazia israeliana: neppure il piede palestinese può toccare il suolo di Shuhada Street. Mi sembra assurdo, quasi uno scherzo. Qualcosa in me si aspetta che dopo questa sosta procederemo comunque tutti insieme, Italiani e Palestinesi. Oltre ai giovani dello Yas di Issa, al signore zoppicante con le sue bambine, son con noi anche due ragazzi quindicenni, Sami, che vive nel campo di At-Tuwani e a cui abbiamo dato un passaggio per venire qui, e il suo migliore amico di Hebron. Issa ci spiega che i Palestinesi di Shuhada Street son stati costretti a lasciare le proprie case, a chiudere tutti i loro negozi. Chi è rimasto nella propria abitazione, per uscire deve passare sopra i tetti o per buchi praticati nelle pareti delle case dei vicini: la legge israeliana non fa sconti, l’asfalto di Shuhada Street appartiene ai figli di Davide, i Palestinesi se ne facciano una ragione. E sul mio cuore cade un macigno quando Issa alza la voce, in modo che i soldati possano sentirlo: “Ora voi, che siete internazionali, percorrerete questa strada. Noi Palestinesi, poiché non siamo umani, non potremo accompagnarvi. Dovremo fare una deviazione attraverso il cimitero dei nostri padri, vi raggiungeremo alla fine della via, ci troviamo laggiù”. Si incamminano sull’altura mentre noi indugiamo esitanti, persi. Con un gesto automatico, solleviamo i passaporti davanti ai soldatini israeliani, affinchè ci lascino entrare in Shuhada Street. Superiamo il check point. I miei piedi si muovono sulla strada negata a chi l’ha costruita. Nessuno del gruppo osa fiatare. Il silenzio ci schiaccia, i nostri passi son lenti, avvolti in un torpore sconosciuto. Le serrande dei negozi ai nostri lati son sigillate, le antiche tende come palpebre verdi ricadono sopra alle imposte, tenendole chiuse in un lungo e tormentato sonno. Cammino, e penso intanto alle nostre guide che ora stanno attraversando il cimitero. Shuhada Street è abbastanza lunga per torturarmi col disagio di avere un diritto a loro negato, con la rabbia che l’apartheid sia praticato nel 2014, col senso di lutto che mi assale di fronte alla morte che si avverte in questa via deserta, con l’indignazione per le voci che potrei sentire, per i colori che potrei vedere, per la confusione che potrebbe esserci su questa strada, che hanno invece lasciato posto al camposanto dell’umanità, spopolato anche dei defunti.
Finalmente, la fine di Shuhada Street. I volti dei nostri compagni palestinesi. Mi sembra d’aver guadato un fiume, le mie gambe sono stanche, pesanti della vergogna d’aver camminato dove loro non possono, dove anch’io forse mi sarei dovuta rifiutare di passare. Ho attraversato l’apartheid, mi dico. La retorica del giorno dei funerali di Mandela è un fastidioso brusio nelle mie orecchie che mi fa sentire persino  in colpa di essere definita una “internazionale”. Mi ritornano in mente le parole di Neruda: “Chiederete: perché la tua poesia Non ci parla del sogno, delle foglie, Dei grandi vulcani del tuo paese natìo? Venite a vedere il sangue per le strade,Venite a vedere Il sangue per le strade,Venite a vedere il sangue Per le strade!”.Di questa strada, venite a vedere il silenzio, venite a respirare il silenzio, venite ad affettare il silenzio, cari internazionali, cari figli del perbenismo e dei grandi discorsi celebrativi.
Finisce via Shuhada, non termina l’orrore. Nuovi vicoli fantasma, anche qui case abbandonate dagli esasperati proprietari. I portoni son tutti grigi, dipinti di recente: durante la campagna elettorale di un anno fa, le poco onorevoli stelle di Davide e le scritte “Morte agli arabi” sono state dignitosamente cancellate con una passata di vernice, una bella lavata sulla pellaccia d’asino della coscienza israeliana. Quasi nessuno abita più qui, ma alla nostra sinistra, Issa ci indica un appartamento al secondo piano, dove vive un’anziana Palestinese insieme alla figlia. “Secondo voi perché abita ancora lì? Perché è sorda, e non sente le molestie che ogni giorno i coloni e i soldati lanciano contro di lei e la sua ragazza”. Lento rimuginare su queste esistenze impossibili nella terra degli aranci tristi, tristi come gli occhi di Issa che ci sta dicendo che la casa in cui è nato si trova in Shuhada Street e non la può più vedere, quando finalmente incontriamo un po’ di vita: tre negozi di souvenirs palestinesi. I commercianti ci accolgono con gioia, hanno preparato persino del tè da offrirci al nostro arrivo, nella paralisi da incubo delle strade di Al Khalil ci sembra quasi di entrare in una bolla di normalità. Imbarazzati, ci improvvisiamo turisti, contrattiamo shekel ed euro, facciamo felici i commessi, arruffiamo oggettini di ogni genere. Quando esco, allegra, sciorinando i miei salam divertiti ai mercanti, una doccia fretta, o forse una cascata d’acqua bollente, mi cade addosso con le parole di un mio compagno: “Uscite, sbrigatevi: hanno arrestato Sami”. Hanno arrestato Sami, mi ripeto, provando a capire, a decifrare, a mettere insieme quelle tre parole che mi sembrano insensate. Sami, che camminava accanto a me due minuti fa, il quindicenne palestinese dai capelli biondi. Ci raduniamo tutti sotto a una torretta dell’esercito israeliano, che è lì di fronte ma non avevo notato. Chiedo informazioni, in preda alla confusione più nera. Mi spiegano che due soldati che si trovavano di fronte ai negozi, vedendo Sami e il suo amico di Hebron, intuendo la loro origine araba, li hanno arrogantemente richiamati con un gesto del dito, per chiedere loro un documento di identità. Né Sami né l’altro ragazzo l’avevano portato con sé: crimine inaccettabile, in odor di terrorismo. I due ragazzini son stati afferrati dai soldati e trascinati nella torretta. Il mio stomaco sembra disfarsi dalla paura, si contorce nello sconcerto provocandomi fitte atroci. E qui no, neppure le disposizioni severe date al mio cuore all’inizio della visita servono a frenare il nodo alla gola. Stringo i denti, penso ai due ragazzi chiusi lì dentro. Non ho mai assistito a un arresto, mai avrei pensato che il primo che avrei visto sarebbe avvenuto così. Due quindicenni trattenuti perché privi di documenti in Al Khalil. Fortuna che mentre noi siamo immobili a farci assalire dall’ansia e dal terrore, i Palestinesi, maestri di vita, si muovono subito. Mike, la nostra guida, sale sulla torretta per andare a difendere i due bambini che potrebbero essere suoi nipoti. Lo segue Issa, che a difendere e salvare i Palestinesi da detenzioni ingiuste e prive di accusa è un esperto. Ogni secondo è un’eternità, i nervi son scossi come se mi avessero rapito un parente, le domande e le preghiere si confondono, le prime rassegnate lasciano presto il posto alle seconde. Poi, finalmente, Sami e il suo amico escono fuori: sono liberi. E guardateli qui, questi internazionali faciloni, che esorcizzano tutte le loro paure festeggiandoli con un applauso. E questi due quindicenni che, invece, scendono dalla scaletta senza guardarli, con la testa bassa: i loro occhi son quelli di due anziani, un velo di stanchezza e umiliazione li separa da noi e dal resto del mondo, cancellando ogni traccia della loro età. L’applauso si smorza nel gelo. Esce quindi Mike, e poi Issa, trattenendosi la sciarpa rossa sul petto, con un’espressione dura sul volto: mi accorgo solo ora della sua bellezza, o forse un po’ gliela disegno io, il suo coraggio va al di là di qualsiasi fascino.
Siamo liberi, si fa per dire, di procedere. Qualche passo, e siamo in un altro girone nell’Inferno, quello dei coloni a piedi e non in automobile. Un ebreo sulla cinquantina, corpulento, con una bella kyppah sulla testa, si insinua nel nostro gruppo e, camminandomi accanto, inizia a chiamare provocatoriamente alle spalle Mike. Mike si ferma all’angolo della strada, davanti a tre soldati che divertiti si godranno la scena. Lì il colono accende la sua telecamera, riprendendolo in primo piano, e punta il dito della sua mano sinistra sul naso di Mike: urla, lo attacca con insulti in ebraico di ogni tipo, agita il dito più violentemente per minacciare, il suo tono è inequivocabile, lo sguardo di Mike parla da solo. Vorrei tenere il suo cuore tra le mie mani, abbracciarlo, prendere le lacrime che gli offuscano la vista e piangerle io per lui, una ad una. In quegli occhi ho visto tutta la storia di un popolo, in quell’espressione di dolore rassegnato e rabbia ammansita i sessantacinque anni di oppressione patiti dagli abitanti di questa terra. Mike ci dirà, qualche metro più avanti, che il colono ha detto che siamo immondizia, morti che camminano, che dovremmo essere tutti sepolti sotto terra, ma non ci rivelerà altro, le parole più pesanti, quelle che son sicura quell’ebreo ha rivolto alla sua famiglia e ai suoi figli, le minacce che per pudore la mia guida custodirà tra i mille tormenti della sua anima, ma che io mi immagino e mi segno sulla pelle.
Altro check point, sbarre d’acciaio da superare, al solito, una volta noi, ogni giorno, in più momenti, i Palestinesi. Quindi, un altro gradino dell’Inferno. Un’antica via del mercato che, a percorrerla a capo chino, è tutta ombra e sudiciume. Alzando lo sguardo, la sorpresa. Il cielo ci arriva filtrato da una rete che copre tutta la strada. I coloni erano soliti lanciare ogni sorta di oggetto per ferire mercanti e passanti. Per proteggersi, i Palestinesi hanno realizzato questa esile difesa. Imbrigliate tra le maglie, però, son sospese uova, bustine di tè, residui di immondizia. Vilmente, ebbene sì, ancora una volta, ci ripariamo ai lati del vicolo per evitare che ci vengano lanciati addosso olio da cucina o altri liquidi meno onorevoli. Issa e gli altri restano lì, al centro della strada, perfettamente sotto alla rete. Cos’hanno le nostre teste e le nostre narici in più rispetto alle loro, da renderci così schizzinosi e paurosi? Se ci si abitua più facilmente ai diritti o alla loro negazione me lo chiedo con il cuore che inizia a cedere e a consegnarmi la resa, mentre attraverso la rete cerco di intuire un po’ d’azzurro, di invocarlo, magari, con le vane speranze di chi lo cerca tra le immondizie lanciate dagli umani su altri umani.
Nella via della rete, ci affiancano anche dei ragazzini. Poverissimi, mi ricordano i bambini dei campi profughi. Vivono in una città, dovrebbero essere dei privilegiati, ma abbiamo ormai capito che gli infelici tra gli infelici della Palestina sono forse proprio i residenti di Hebron. Mi si avvicina un bimbo che avrà sette anni, forse otto, a decifrare le età ci ho ormai rinunciato, anche lui tradisce la sua altezza di bambino con la sua pelle dura e scavata che sembra quella di un trentenne, coi suoi occhi maturi e pieni di cose che, solo a immaginarle, mi terrorizzerebbero. Vuole vendermi dei bracciali, mi segue chiamandomi sorella, conosce parole in italiano, in inglese, in francese, si atteggia a venditore ambulante di un affollato villaggio turistico, ma al mio sorriso gli torna un po’ d’infanzia sul volto, e svela timidamente la sua identità di vittima caduta per caso nel regno dell’apartheid. Compro da lui un bracciale con la scritta Palestine per mio fratello, glielo prendo perché voglio che lo indossi sempre, anche se non bello, anche se scadente come souvenir, voglio che il mio fratello di sangue tenga al polso questo simbolo, questo ricordo del mio possibile fratello dagli occhi nerissimi che la vita ha condannato a nascere in una città fantasma. La gratitudine di questo fratellino mi rimane impressa: mi ringrazia una, due, tre volte, corre alla fine della strada per ritrovarmi e ringraziarmi ancora, mi saluterà anche quando sarò nell’autobus, facendomi ciao con la mano attraverso il finestrino, pronunciando l’ennesimo “grazie sorella” con le labbra. Il mio fratello di Hebron, il mio fratello della strada della rete.
Siamo quasi alla fine del tour, e Issa ci lascia il testimone di un discorso che mi segnerà profondamente, nei giorni a venire, e che mi ripeterò più volte, anche in Italia. Sulla mia agenda rossa la scrittura diventa quasi incomprensibile, le mani mi tremano nell’ansia di raccogliere ogni parola: “ Al motto di Vittorio Arrigoni, Stay human, finchè non mi uccideranno aggiungerò sempre un’altra parola, Stay actively human. Per il cambiamento, bisogna essere attivamente umani. Non basta provare sentimenti di umanità, occorre poi metterli in pratica, sacrificarsi in prima persona perché i diritti umani e il diritto internazionale siano rispettati in ogni parte del mondo. Siamo in un mondo che non crede più nei diritti ma nei profitti. Ma se negli anni ’50 Martin Luther King diceva “I have a dream”, oggi, nel 2014, ognuno di noi dovrebbe imitarlo e pronunciare il suo “We have a dream”. E credere nella forza dell’amore. Stay actively human”.
Mentre ci muoviamo verso l’autobus, ancora commossi, mentre le emozioni fanno ressa nei nostri cuori iniziando a lasciarci addosso una grande stanchezza, all’improvviso sentiamo delle grida, davanti a noi dei ragazzi palestinesi corrono, coprendosi il volto. E’ un attimo, alziamo lo sguardo, e dall’alto vediamo dei coloni che lanciano lacrimogeni sulla nostra strada. Corriamo, mentre Issa e i suoi ci stanno dietro, coprendoci le spalle. Corriamo, nel fumo e negli scoppi assordanti. Un ragazzo dello Yas ci spiega che non succede ogni sera, e che forse questi lacrimogeni sono proprio contro di noi, contro questi internazionali curiosi che sono venuti a frugare nell’armadio di Israele e a scoprire i suoi tanti scheletri. Siamo in autobus, affannati e spaventati, ma salvi. Issa, questa sciarpa rossa che ci ha accompagnati nell’Inferno, ci lancia un saluto quasi ottimista, che ci brucia un po’ sulle tante ferite che questa giornata ci ha lasciato addosso e a cui, dai nostri sedili, ci stavamo già abbandonando. Ci ricorda della nostra Resistenza, ci dice che gli ha sempre dato tanto coraggio pensare alla storia italiana, e che adora la canzone “Bella ciao”. La nostra storia, dimenticata dalle scuole e dallo Stato, e riscoperta in Palestina. Ricaccio indietro il mio nodo alla gola, per la tristezza c’è sempre tempo. E mando indietro anche la mia timidezza, inizio a capire l’essenzialità di ogni istante, l’importanza di dare e offrirsi in ogni momento in cui ce ne sia offerta l’occasione. Niente Shoukran, niente grazie, niente silenzi per salutare Hebron. Dalla mia voce parte un lieve “Una mattina mi son svegliato…”. Silvia accanto a me mi segue a ruota, Mario ci guarda, sorride, e si unisce a noi: “O bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao, una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor”. Il sorriso di Issa, poi Hebron che si muove lentamente dal finestrino, Bella ciao che va avanti fino alla fine, mentre il cuore si svincola dal nostro patto e si scioglie. Le lacrime prendono a cadere, silenziose, lente, e finalmente posso smettere la mia parte di reporter coraggiosa e affrontare il baratro che mi si è aperto nel petto. L’incubo, l’inferno, l’apartheid. Come si resta umani a Hebron? 200.000 Palestinesi costretti alle sevizie di 600 coloni. L’illegalità che si fa legge, la sofferenza che diventa consuetudine, la resistenza che rende anziani i bambini e che indurisce i volti, la forza che diventa tradizione. Un po’ piango, un po’ trattengo. L’umanità mi fa male e l’umanità dà senso alla mia vita. Per questo, canto Bella ciao come fosse un arrivederci, come fosse una ninna nanna per cullare i miei fratelli che vivono nella città fantasma, prigionieri di un terrore che un giorno cancelleremo. O partigiano, portami via.

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