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mercoledì 19 febbraio 2014

RITORNO IN PALESTINA

intervista a una giovane “occidentale” alla scoperta delle proprie radici.

Da questa sua esperienza Aletheia ha fatto nascere un blog (https://wedonthaveacountry.wordpress.com/, scritto in inglese, dove mixa attualità e diario di bordo del suo viaggio.
Ecco allora che oggi usciamo dall’Europa (ma non dalle sue presunte responsabilità politiche) e, partendo dal mio Valdarno, passiamo da Bologna per andare dritti a Gaza, attraverso gli occhi e i pensieri di una giovane donna (con gli attributi, direi), attivista, blogger e viaggiatrice.
L’intervista non ha nessun scopo “politico” o di denuncia: niente di più obiettivo e vicino a noi di un occhio cresciuto in occidente che scopre le drammatiche vicende delle sue origini e a cui, come leggerete, non è dato nessun privilegio “turistico”.
-Parlaci di te: i tuoi studi e il tuo viaggio in Palestina, per quale motivo hai deciso di intraprendere questa esperienza? Com’è stata?
Mi sono laureata a luglio in giurisprudenza, con una tesi in diritto internazionale che trattava il diritto all’acqua nel contesto del conflitto israelo- palestinese. Dato che avevo scritto la tesi su questo argomento e in inglese, mi è stato proposto di fare un internship per un’organizzazione palestinese, per approfondire il tema. Non ho mai voluto fare la pratica per diventare avvocato e quindi ho pensato che avrei dovuto cogliere subito quest’occasione. Così ho fatto le valigie e sono partita senza programmare nulla. È stata un’esperienza a dir poco incredibile. Difficile, ma ricchissima dal punto di vista umano e professionale. Per la prima volta ho avuto il tempo di viaggiare in diverse città in Palestina ed Israele, di parlare con le persone comuni, di affrontare le difficoltà di vivere sotto occupazione militare, di trovarmi in un contesto socio-culturale che poco mi apparteneva, di vivere in costante tensione per paura di un attacco o di qualcosa di simile (dovuta per lo più al fatto che ogni notte sentivo gli elicotteri militari, piuttosto che ad un reale pericolo), di vedere con i miei occhi la discriminazione razziale (in Cisgiordania, nelle strade che portano da una città all’altra, ce ne sono alcune riservate solo agli Israeliani e ai coloni e ci sono fermate degli autobus protette da blocchi di cemento armato per i coloni), scontrarsi con un muro di cemento alto 8 metri e passare un check-point che sembra un luogo per lo smistamento del bestiame. Oltre a queste cose negative, però, ho anche visto dei luoghi dalla bellezza travolgente, delle persone di un’allegria contagiosa e di un coraggio incredibile, degli artisti talentuosi che adottano una forma di resistenza culturale e ho conosciuto un popolo pieno di speranza, anche se a volte un po’ abbattuto.
- Il tuo blog, per quanto ovviamente rispecchi il tuo punto di vista, può dirsi imparziale? Quanto è diversa la realtà da quello che conoscevi prima di partire?
Non definirei il mio blog imparziale. Tento di analizzare e comprendere il punto di vista degli israeliani, dei sionisti e anche delle lobbies ebraiche che sostengono Israele, leggo quello che scrivono quelli che non la pensano come me, li studio e cerco di mettermi nei loro panni e quando posso gli do voce. Ma raramente posso trovarmi in accordo.
Penso di potermi permettere di essere “parziale” perché è un blog e perché, piuttosto che fare informazione, scelgo un argomento e dò un’opinione.
Sono tornata in Palestina a distanza di un anno. Nel 2012 ci ero andata per vacanza, se così si può dire. Ero un po’ alla riscoperta delle mie origini e volevo conoscere la parte della mia famiglia che sta al di là del Mediterraneo. Erano 13 anni che non ci andavo e, non solo non ricordavo nulla di quello che avevo visto, ma, incredibilmente, non sapevo nulla. Ho imparato come vivono i Palestinesi guardando con i miei occhi, parlando con i miei zii e cugini e con chiunque, per strada o in taxi, fosse disponibile a farlo. Poi, quando sono ritornata, questo autunno, ho scoperto molte altre cose e sono sicura che quando ci ritornerò ne scoprirò ancora altre. Per quanto si possa conoscere la questione palestinese, ci sono sempre cose nuove da scoprire e sarà sempre diversa da quella che si è conosciuta la prima, la seconda o la terza volta che ci si è andati. E poi, anche la società palestinese è così complessa e complicata che ogni volta mi sembra diversa da quella che pensavo di conoscere.
- Il post che battezza il tuo blog tocca subito il delicato campo dei mass media. Senza voler fare del populismo spicciolo, sappiamo tutti che è difficile, in generale, parlare di completa “libertà” dei media, sia che si parli di un condizionamento superiore, sia che dipenda dall’espressione di un punto di vista parziale del giornalista. Quanto “non sappiamo” della Palestina, diciamo, qui in Italia?
La mia critica nei confronti dei mass media nasce dalla triste constatazione che non solo il conflitto Palestinese è poco trattato, ma, anche che quando è trattato, la prospettiva è estremamente condizionata e di parte. In Italia, nulla o quasi si sa della situazione palestinese, a meno che non si sia particolarmente interessati sul tema. Ad esempio, avete letto qualcosa sui principali quotidiani sulla riapertura dei negoziati? Qui si parla di Palestina solo quando il livello di tensione sale talmente tanto da condurre a scontri tra le parti, soprattutto nella Striscia di Gaza. Proprio ciò che è accaduto nel 2008-2009 e nell’autunno del 2012. Ma anche in questo caso, spesso gran parte dei mass media si scaglia contro Hamas. In realtà i razzi che Hamas lancia verso Israele a fatica varcano il confine della Striscia di Gaza e non colpiscono mai civili. Ogni Stato ha diritto a difendere la sua sicurezza, ma il principio fondamentale è PROPORZIONALITÀ’, parola sconosciuta agli Israeliani.
Per tornare alla domanda, io posso rispondere che, in Italia, si sa veramente poco della Palestina. Io stesso utilizzo solo l’informazione di testate internazionali, anche palestinesi e un sito israeliano. Tuttavia ciò non significa aver garantita un’informazione completamente obiettiva. Ad esempio, qui non si sa che i Palestinesi non hanno accesso alle loro risorse idriche, che sono costantemente monitorati, che gli abitanti di Gerusalemme sono praticamente degli apolidi, che i Palestinesi che vivono a Gaza e in Cisgiordania hanno bisogno di un permesso per andare in Israele, che gli insediamenti sono ovunque e i coloni attaccano i Palestinesi quotidianamente, che in Palestina ci sono circa 4000 detenuti (in regime di detenzione amministrativa, quindi senza capo d’accusa e senza processo) di cui 1/4 sono minorenni, che i soldati israeliani fanno esercitazioni militari vicino alle città e ai villaggi palestinesi senza avvertirli e, di conseguenza, terrorizzano la popolazione, facendo pensare che ci sarà un imminente attacco. Potrei andare avanti per pagine e pagine, ma penso di aver reso l’idea.
Cronaca: la morte di Sharon. Pensi cambierà qualcosa in Palestina? E nei consessi internazionali?
Secondo me, c’è un detto che si adatta perfettamente alla questione palestinese: “Cambia tutto per non cambiare niente”. Ed è quello che avviene in Palestina da oltre 60 anni. Anche Oslo (gli Accordi di Oslo del 1993 per la liberazione della Palestina, nda) doveva rivoluzionare tutto, ma in pratica ha mantenuto lo status quo, ossia l’occupazione. La morte di Sharon poco significa per la questione Palestinese, i palestinesi sono ancora cittadini di serie B. Al potere oggi c’è Netanyahu, il quale non ha certo un atteggiamento più benevolo o equo per quanto riguarda i Palestinesi. I negoziati sono stati riesumati, ma non porteranno assolutamente a nulla. La posizione dei Palestinesi è chiara e si basa sul diritto internazionale: non è carità quella che chiedono, ma il riconoscimento dei diritti di cui sono titolari. La mia formazione giuridica mi dice che sui diritti non si negozia. Invece, la posizione degli Israeliani non è per niente chiara. Ogni giorno avanzano nuove richieste e concessioni ai Palestinesi e violano le condizioni che avevano portato all’ accordo sull’ apertura dei negoziati. La tattica da sempre usata dagli Israeliani è stata quella di fare richieste che difficilmente i Palestinesi potevano soddisfare (oggi ci sono quella di riconoscere Israele come uno Stato ebraico e quella di mantenere i soldati israeliani al confine con la Giordania nella valle del Giordano), così da trasferire la responsabilità per il fallimento dei negoziati sui Palestinesi.
Per quanto riguarda i consessi internazionali, nulla cambierà. Il problema della comunità internazionale e degli organismi internazionali è che le loro attività sono condizionate dagli interessi degli Stati più potenti, militarmente ed economicamente. Se guardiamo agli interessi economici che l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno in Israele, facilmente capiamo perché nulla accade. E il maggiore problema è che nessuno Stato oggi è in grado di avere una leadership abbastanza forte da poter agire contro Israele per renderla internazionalmente responsabile. Oltretutto, nutro seri dubbi anche in un’azione della Corte Penale Internazionale, che in teoria dovrebbe essere imparziale e garantire che i criminali di guerra siano assicurati alla giustizia (e qui le implicazioni sono sia giuridiche che politiche).
- Nel blog parli di come i soldati non rispettano la stessa legge israeliana, ad esempio per proteggere i coltivatori di ulivi. Quanto secondo te sono “legali” i soprusi e le violazioni che vengono compiute in Palestina? La legge internazionale c’è e non viene rispettata o manca qualsiasi volontà da parte di Onu e Occidente di proteggere il popolo palestinese?
È proprio questa la domanda che mi sono posta quando ho cominciato ad analizzare dal punto di vista giuridico la questione palestinese. Ossia, mi sono chiesta “Ma se nessuno Stato al mondo e nessuna organizzazione internazionale prendono provvedimenti legali o diplomatici contro Israele, c’è qualcosa di legale in quello che fanno?”. Ad un’attenta analisi del diritto internazionale applicabile nel contesto (seppure ci siano delle divergenze in dottrina), si scopre che è costantemente violato e che non c’è nulla di legale. Sradicare ulivi, demolire abitazioni, costruire il muro di separazione, utilizzare le risorse idriche palestinesi, costruire e ampliare gli insediamenti e così via, sono tutte violazioni del diritto internazionale e degli obblighi cui la stessa Israele è vincolata, per il solo fatto di aver ratificato la Quarta Convenzione di Ginevra e i due Patti Internazionali sui diritti umani del 1966. Proprio non saprei se la legge internazionale è giusta o meno, e forse non la si può valutare nemmeno con questo parametro. Io preferisco analizzarla in termini di efficacia. Il diritto internazionale è in larga parte creato dagli Stati per gli Stati, anche se dalla seconda metà del Novecento come soggetti di diritto internazionale sono apparsi anche gli individui, ed è fatto applicare dagli Stati in virtù del loro consenso. E già questo ha i suoi vantaggi e svantaggi. Se da una parte il consenso fa sì che uno Stato spontaneamente adempia agli obblighi cui ha acconsentito, è anche vero che facilmente può restarne fuori non prestando il consenso ad un trattato. Tuttavia, c’è la soluzione magica del diritto consuetudinario, che viene applicato anche in mancanza di un trattato. E questo è molto giusto. Molte branche del diritto internazionale che si possono “potenzialmente” applicare in Palestina sono state riconosciute diritto internazionale consuetudinario. Tuttavia, ciò che manca è la volontà, politica direi, di applicare il diritto internazionale da parte di ONU e Occidente in generale.
Huntington ha scritto che non esiste conflitto più pericoloso e sanguinario di quello fra culture diverse, in particolare se esistono delle divergenze religiose, e su questo non si può dargli torto. Quanto oggi è forte il fattore religioso nella terra dei fuochi e quanto esso è mascherato da interessi di potere o prettamente economici?
La mia opinione è che non sono gli interessi economici e politici a mascherare il conflitto religioso, ma bensìche sia il fattore religioso a mascherare gli interessi di potere ed economici. Infatti, è comune opinione pensare che il conflitto abbia le sue radici nella classica lotta tra l’Islam e la tradizione giudaico- cristiana. Ma a ben vedere non è vero. Primo, gli ebrei sono sempre stati presenti in Palestina, seppure costituissero una minoranza, e non hanno mai avuto problemi né con i cristiani né con i musulmani (o almeno, non ne ho trovato notizia in nessuno dei libri di storia di autori israeliani). Secondo, la migrazione degli ebrei in Palestina è iniziata nei primi decenni del Novecento e non aveva motivazioni religiose, bensì secolari: difatti, è il prodotto del Sionismo, un movimento secolare e coloniale. Se si leggono i primi teorici del Sionismo, si scopre che le motivazioni sono ideologiche ed economiche (crescente antisemitismo in Europa e Russia e condizioni di vita terribili). Terzo, quando nel 1948 è stato fondato lo Stato d’Israele, gli ebrei hanno cacciato dalle loro case non solo i Palestinesi musulmani, ma anche cristiani: sfatando così il mito di una supposta alleanza giudaico- cristiana. Poi, però le cose sono evolute in un modo diverso e oggi, forse, il fattore religioso è più evidente. Il fondamento stesso dello Stato di Israele è collegato alla costruzione di una casa per il popolo ebraico. È chiaro, quindi, che l’ebraismo giochi, ai loro occhi, un ruolo fondamentale nella loro politica nei confronti dei Palestinesi e degli arabi Israeliani Per quanto riguarda i Palestinesi, credo la religione non giochi nessun ruolo, almeno per quanto riguarda il conflitto, poi all’interno della società palestinese, la religione regola ogni settore della vita, pubblica e privata. Il fattore religioso, inoltre, è strumentale ad Israele più di qualsiasi altra cosa. Sottolineando la loro religione, fanno sì che chiunque critichi Israele per le sue politiche sia accusato di antisemitismo.
Israele si vuole e si proclama uno Stato democratico, anzi vanta di essere l’unico Stato democratico in Medio Oriente. Tuttavia, non lo è per nulla. Democrazia vuol dire garantire la partecipazione di tutti i cittadini nella formazione della volontà politica nazionale, vuole dire garantire lo stato di diritto e il rispetto dei diritti economici, sociali, politici e, da ultimo, umani. In Israele, ciò non avviene. Per fare qualche esempio, gli Arabi israeliani hanno sì diritto di voto e fanno sì parte della Knesset (il parlamento israeliano), però sono discriminati a livello sociale e politico, sono a rischio di trasferimento forzato e inoltre, possono essere detenuti in detenzione amministrativa, seppure essa sia illegale nei confronti di un cittadino israeliano (e gli Arabi israeliano lo sono). Inoltre, come tutti sanno, Israele è responsabile di crimini di guerra e contro l’umanità a danno dei Palestinesi, nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.
Perché gli USA, supportino senza riserve Israele rimane per un’ingiustizia oltre che una pessima tattica di politica estera. È un’ingiustizia perché supporta la politica dei due pesi e due misure, per cui si condannano solo gli Stati più deboli, economicamente e militarmente, per poi ri-colonizzarli. È sconveniente dal punto di vista diplomatico perché non porta vantaggi a lungo termine e danneggia l’immagine degli USA in Medio Oriente. Ma allora perché? Per capirlo, ho appena finito di leggere un libro del 2006 sulla politica estera americana: Mearsheimer- Walt, La lobby di Israele e la politica estera americana nei confronti di Israele e due dati emergono: il primo è che alla popolazione americana, in generale, gli israeliani e le comunità ebraiche sono simpatiche e pensano davvero che avessero e tuttora abbiano diritto ad uno Stato in Palestina; il secondo dato, che poi influenza anche il primo, è l’influenza delle lobby ebraiche negli USA. Queste lobby operano a tutti i livelli, diffondendo una certa immagine di Israele e dei Palestinesi (sui media, nelle università, nelle raccolte fondi e di beneficenza, ecc) e fornendo ingenti somme di denaro ai politici americani (non importa di quale schieramento politico) pro- Israele, per finanziare le loro campagne elettorali. È una esemplificazione dei numerosi argomenti esposti nel saggio, tuttavia rende un po’ l’idea.

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