Questo è un breve, struggente e significativo racconto dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani (1936 – 1972)
Caro Mustafa,
ho ricevuto la tua lettera, nella quale mi dici di aver fatto tutto il necessario per consentirmi di stare con te a Sacramento.
Mi hanno comunicato di essere stato accettato al dipartimento di Ingegneria civile nell’Università della California. Devo ringraziarti per ogni cosa, amico mio. Ma quello che sto per rivelarti ti sorprenderà piuttosto inaspettatamente: non ho dubbi in proposito; non mi sento di esitare affatto; ne sono così convinto che non ho mai visto chiaramente le cose come le vedo adesso. No, amico mio, ho cambiato idea. Non ti seguirò “nella terra dove c’è vegetazione, acqua e facce attraenti”, come hai scritto.
No, sto qui, non partirò più.
Sono veramente turbato che le nostre vite non continuino a seguire lo stesso corso. Quasi mi sembra di sentirti, mentre mi ricordi della nostra promessa di andare avanti insieme, e il modo in cui eravamo soliti gridare “diventeremo ricchi”. Ma non c’è niente che possa fare, amico mio. Sì, ancora ricordo il giorno in cui stavo nella hall dell’aeroporto del Cairo, stringendo la tua mano e fissando il motore ronzante dell’aereo. In quel momento ogni cosa ruotava in sincronia con l’assordante rumore del motore, e tu mi stavi di fronte, la tua faccia rotonda silenziosa.
La tua faccia non era cambiata, era la solita di quando crescevi a Shajia, nel quartiere di Gaza, a parte quelle lievi rughe. Siamo cresciuti insieme, in piena sintonia, e insieme ci siamo promessi di andare avanti sino alla fine. Ma…
“Manca un quarto d’ora prima che l’aereo parta. Non fissare il vuoto così. Ascolta! Andrai in Kuwait il prossimo anno, e metterai da parte abbastanza dal tuo salario per sradicarti da Gaza e trapiantarti in California. Abbiamo iniziato insieme e insieme dobbiamo andare avanti…”
In quel momento guardavo le tue labbra muoversi rapidamente. Che poi era il tuo solito modo di parlare, senza virgole o punti. Ma per qualche oscura ragione, sentivo che non eri completamente felice di andartene. Non riuscivi a fartene una ragione. Anche io ho sofferto questo strazio, ma la
cosa sicura era: perché non abbandoniamo questa Gaza e fuggiamo? Perché non fuggiamo?
Comunque, la tua situazione iniziò a migliorare. Il Ministero dell’Educazione del Kuwait ti diede un incarico, mentre a me non lo diede. Mi mandasti un po’ di denaro, perché ero immerso nella miseria e nella depressione. Ma volevi che considerassi quei denari in prestit, perché avevi paura che fosse una mancanza di riguardo nei miei confronti. Conoscevi nei dettagli le condizioni finanziarie della mia famiglia; sapevi che il misero salario della scuola dell’UNRWA era inadeguato a sostenere mia madre, la vedova di mio fratello e i suoi quattro figli.
“Ascolta attentamente. Scrivimi ogni giorno… ogni ora… ogni minuto! L’aereo sta partendo.
Addio! O piuttosto, al prossimo incontro!”
Le tue labbra fredde sfiorarono la mia guancia, allontanasti la faccia e voltasti lo sguardo verso l’aereo, e quando mi guardasti di nuovo potei vedere le tue lacrime.
In seguito il Ministero dell’Educazione del Kuwait mi fece il contratto. Non è necessario ripeterti nei dettagli come andò da quelle parti la mia vita. Ti ho sempre scritto ogni cosa. La mia vita da quelle parti era collosa, e vacua, come se fossi stato una piccola ostrica. Ero smarrito in un opprimente isolamento, a combattere lentamente con un futuro buio come il calar delle tenebre, impigliato in una disgustosa routine, era una lotta inarrestabile contro il tempo. Ogni cosa era opprimente e disgustosa, sfuggiva dalla vita, e c’era una voglia matta di arrivare alla fine del mese.
A metà anno, di quell’anno, gli ebrei bombardarono il distretto centrale di Sabha e attaccarono Gaza, la nostra Gaza, con bombe e lancia fiamme. Quell’avvenimento avrebbe potuto produrre dei cambiamenti nella mia vita abitudinaria, ma non c’era niente per me di così interessante; stavo
lasciando dietro di me questa Gaza per andare in California, dove avrei vissuto la mia vita, tutta la vita per me stesso, la vita che avevo sofferto così tanto. Odiavo Gaza e i suoi abitanti. Ogni cosa nella città mutilata mi ricordava quadri grigi abbandonati, dipinti da un pittore malato.
Sì, avrei mandato a mia madre, alla vedova di mio fratello e ai suoi figli un po’ di denari per aiutarli a vivere, ma avrei anche liberato me stesso da questo ultimo legame, lì, nella verde California, lontano dal fetore di sconfitta che per sette anni ha riempito le mie narici. L’affetto che mi legava ai bambini di mio fratello, alla loro madre e a mia madre, non sarebbe mai stato abbastanza da giustificare la mia tragedia, il mio salto all’ingiù. E questo non doveva trascinarmi più a fondo più di quello che aveva già fatto. Dovevo fuggire!
Conosci questi sentimenti, Mustafa, perché ci sei passato anche tu. Che cosa è questo mal definito legame che noi abbiamo con Gaza, che smorza il nostro entusiasmo per volare? Perché non abbiamo analizzato la faccenda in modo da darle un chiaro significato? Perché non abbiamo lasciato
questa sconfitta con i suoi feriti dietro di noi e ci siamo mossi verso un futuro più luminoso che ci avrebbe dato una più profonda consolazione? Perché? Non lo sapevamo esattamente.
Quando andai in vacanza a giugno, e misi insieme i miei averi, avevo voglia di una dolce partenza, l’inizio verso quelle piccole cose che danno alla vita un piacevole, luminoso significato. Trovai Gaza proprio come la conoscevo: chiusa come fosse un involucro interno, attorcigliato su se stesso,
del guscio corroso di una lumaca scaraventata dalle onde sulla collosa, sabbiosa spiaggia vicino al mattatoio.
Questa Gaza, più stretta del respiro di uno che sogna un incubo terribile, con l’odore particolare dei suoi stretti vicoli, l’odore della povertà e della sconfitta, e le case con i protuberanti balconi… questa Gaza!
Ma quali sono gli oscuri motivi che attirano un uomo verso la sua famiglia, la sua casa, le sue memorie, come una sorgente attira un piccolo gregge di capre montanare? Non lo so. Tutto quello che so è che andai da mia madre, a casa nostra, quella mattina. Quando arrivai, incontrai la moglie del mio defunto fratello che mi chiese, piangendo, di far visita a Nadia quella sera, la figlia ferita ricoverata in ospedale, secondo il suo desiderio. Conosci Nadia, la bella figlia tredicenne di mio fratello?
Quella sera comprai un po’ di mele e mi preparai a fare visita a Nadia in ospedale. Sapevo che c’era qualcosa che mia madre e mia cognata mi stavano nascondendo, qualcosa che le loro labbra non potevano pronunciare, qualcosa di strano che non potevo cogliere. Volevo bene a Nadia con naturalezza, la stessa naturalezza che mi faceva voler bene a tutta quella generazione che era stata allevata sulle sconfitte e sulla rimozione, pensando che una vita felice fosse un genere di devianza
sociale.
Cosa successe al momento? Non lo so. Entrai con calma nella stanza bianca. I bambini malati avevano qualcosa della santità; la malattia del bambino sembrava il risultato di ferite dolorose, crudeli. Nadia era sdraiata , con la schiena appoggiata su un grande cuscino, sul quale si spargevano i suoi capelli in una folta chioma. C’era un profondo silenzio che veniva dai suoi occhi spalancati, e una lacrima brillava nell’intensità delle sue pupille nere. Il suo viso era imperturbabile ma eloquente, come può essere la faccia di un profeta torturato. Nadia era ancora una bambina, ma sembrava più che una bambina, molto di più, e più grande di una bambina, molto più grande.
“Nadia!”
Non avevo idea se fossi stato io a parlare, o se ci fosse qualcun altro dietro di me. Ma lei sollevò gli occhi verso di me e sentii che questi si dissolvevano come una zolletta di zucchero caduta dentro
una tazza di tè caldo.
Assieme al delicato sorriso sentii la sua voce. “Zio! Vieni dal Kuwait?”
La voce le si ruppe in gola; si alzò da sola con l’aiuto delle mani tendendo il collo verso di me. Le accarezzai le spalle e le sedei vicino.
“Nadia! Ti ho portato dei regali dal Kuwait, diversi regali. Aspetto che lasci l'ospedale, completamente guarita e quando tornerai a casa, te li darò. Ti ho comprato i pantaloni rossi che mi hai chiesto nella lettera. Sì, li ho comprati.”
Era una bugia, generata dalla tensione della situazione, ma come la pronunciai sentii che stavo dicendo per la prima volta la verità. Nadia tremò come se le avessero fatto l’elettro shock, e abbassò la testa in un terribile silenzio. Sentivo le sue lacrime bagnare il dorso della mia mano.
“Dimmi qualcosa, Nadia! Non vuoi i pantaloni rossi?” Sollevò lo sguardo verso di me e fece come parlare, ma poi si fermò, strinse i denti e sentii ancora la sua voce, come se venisse da lontano.
“Zio!”
Tese le mani, sollevò il bianco lenzuolo con le sue dita e indicò la sua gamba, amputata dalla coscia.
Amico mio… Non potrò mai dimenticare la gamba di Nadia, amputata dalla coscia. No! Non dimenticherò mai il dolore che modellò il suo viso e si fuse per sempre nei suoi tratti. Quel giorno uscii dall’ospedale di Gaza con la mano che stringeva, in silenzioso scherno, le monete che avevo
portato per Nadia. Il sole cocente riempiva le strade con il colore del sangue.
E Gaza era come marchiata a nuovo, Mustafa! Non abbiamo mai visto niente di simile, io e te. Le pietre accatastate all’ingresso del quartiere di Shajia, dove vivevamo, avevano assunto un significato, e sembrava che fossero state messe lì per spiegare qualcosa e non già per altre ragioni. Questa Gaza dove abbiamo vissuto e la gente con la quale abbiamo passato sette anni di disfatte, era qualcosa di nuovo. Mi sembrava giusto un inizio. Non so perché ho pensato che fosse proprio un inizio. Ho immaginato che la strada principale che ho percorso rientrando a casa, fosse solo l’inizio di una lunga, lunga strada che porta a Safad. Ogni cosa in questa Gaza emanava tristezza, non confinata al pianto.
Era una sfida: di più, era qualcosa come la restituzione di una gamba amputata.
Andai fuori per le strade di Gaza, strade piene di luce accecante. Mi dissero che Nadia aveva perso la sua gamba mentre si lanciava sui fratellini e sorelline per proteggerli dalle bombe e dalle fiamme
che avevano avviluppato la casa. Nadia poteva salvarsi, poteva scappare, salvare la sua gamba. Ma non lo fece.
Perché?
No, amico mio, non andrò a Sacramento, e non me ne rammarico. No, e neppure finirò quello che abbiamo iniziato insieme nella nostra infanzia. Questo oscuro sentimento che hai avuto quando hai lasciato Gaza, questo piccolo sentimento deve crescere dentro di te come un gigante. Deve
espandersi, e devi cercarlo per trovare te stesso, qui tra le brutte macerie della sconfitta.
Non verrò da te. Ma tu, tu torna da noi! Rientra, per imparare dalla gamba amputata di Nadia, amputata dalla coscia, che cosa è la vita e cosa il valore dell’esistenza.
Rientra, amico mio! Siamo tutti quanti qui ad aspettarti.
(fonte: http://editoriaraba.wordpress.com/ )
tratto dal libro :