Lettera aperta scritta da...
142 cittadini israeliani | 19 luglio 2014
La carneficina che sta facendo a pezzi la gente di Gaza non fa parte di una guerra convenzionale. Uno degli eserciti più potenti del mondo s’è scagliato con tutta la sua ferocia contro persone lasciate sole dai governi “amici”, pronti semmai a chiudere loro, come sempre, ogni valico o via di fuga. Quel che accade in questi giorni a Gaza fa parte però di una guerra più grande, quella di tutti gli Stati e di tutti gli eserciti contro tutti i popoli. Sì, perfino contro quello che vive in Israele. Ce lo ricorda una splendida quanto emozionante lettera scritta da 142 cittadini israeliani capaci di vedere e capire l’orrore che provocano l’occupazione e la volontà di chi esercita il potere politico e militare nel loro paese. “Viviamo qui da troppo tempo perché si possa dire che non sapevamo, che non abbiamo capito prima o che non siamo stati in grado di prevederlo”. Quei cittadini scrivono alla famiglia di Mohammed Abu Khadr, il giovane palestinese arso vivo da un gruppo di coloni, ma scrivono anche al mondo intero. Sono parole che sfidano il pensiero dominante di una società che hanno visto diventare povera e perdersi nella cultura della violenza. Quelle parole coraggiose tengono aperta, anche quando tutto sembra perduto, la sola speranza di un cambiamento in profondità che potrebbe aver ragione dell’orrore
di 142 cittadini israeliani
Le nostre mani grondano sangue. Le nostre mani hanno dato fuoco a Mohammed. Le nostre mani hanno soffiato sulle fiamme. Viviamo qui da troppo tempo perché si possa dire “non lo sapevamo, non lo abbiamo capito prima, non eravamo in grado di prevederlo”. Siamo stati testimoni dell’enorme macchina di incitamento al razzismo e alla vendetta messa in moto dal governo, dai politici, dal sistema educativo e dai mezzi di informazione.
Abbiamo visto la società israeliana diventare povera e in stato di abbandono, fino a quando la chiamata alla violenza è diventata uno sfogo per molti, adulti e giovani senza distinzioni, in tutte le sue forme.
Abbiamo visto come l’essere “ebreo” sia stato totalmente svuotato di significato, e radicalmente ridotto a nazionalismo, militarismo, una lotta per la terra, odio per i non-ebrei, vergognoso sfruttamento dell’Olocausto e dell’“Insegnamento del Re (Davide, ndt)”.
Più di ogni altra cosa, siamo stati testimoni di come lo Stato di Israele, attraverso i suoi vari governi, ha approvato leggi razziste, messo in atto politiche discriminatorie, si è adoperato per custodire con forza il regime di occupazione, preferendo la violenza e le vittime da ambo le parti ad un accordo di pace.
Le nostre mani sono impregnate di questo sangue, e vogliamo esprimere le nostre condoglianze e il nostro dolore alla famiglia Abu Khadr, che sta vivendo una perdita inimmaginabile, e a tutta la popolazione palestinese.
Ci opponiamo alle politiche di occupazione del nostro governo, e siamo contro la violenza, il razzismo e l’istigazione che esiste nella società israeliana.
Rifiutiamo di lasciare che il nostro ebraismo venga identificato con questo odio, un ebraismo che include le parole del rabbino di Tripoli e di Aleppo, il saggio Hezekiah Shabtai che ha detto: “Ama il tuo prossimo come te stesso” (Levitico, XVIII).
Questo amore reciproco non si riferisce soltanto a quello di un ebreo verso un altro, ma anche verso i nostri vicini che non sono ebrei. E’ un amore che ci insegna a vivere con loro e insieme a loro perseguire il benessere e la sicurezza. Non è soltanto il buonsenso che ce lo richiede, ma è la Torah stessa, che ci ha ordina di condurre la vita in modo armonioso, nonostante e contro le azioni dello Stato e le parole dei nostri rappresentanti di governo.
Le nostre mani grondano di sangue.
Per questo ci impegniamo a continuare la nostra battaglia all’interno della società israeliana – ebrei e palestinesi – per cambiare la società dal suo interno, per lottare contro la sua militarizzazione e per diffondere una consapevolezza che oggi risiede soltanto in una esigua minoranza.
Lotteremo contro la scelta di muovere ancora guerre, contro l’indifferenza nei confronti dei diritti e delle vite dei palestinesi, e il continuo favorire gli ebrei in tutto questo ciclo di violenza.
Dobbiamo combattere per offrire un legame umano – un legame che sia anche politico, culturale, storico, israelo-palestinese ed arabo- ebraico; un legame che può essere raggiunto attraverso la storia di molti di noi che hanno origini ebraiche ed arabe, e per questo, fanno parte del mondo arabo.
La nostra scelta è quella della lotta per l’uguaglianza civile e il cambiamento economico, in nome dei gruppi emarginati e oppressi nella nostra società: arabi, etiopi, mizrahim (di discendenza araba), donne, religiosi, lavoratori migranti, rifugiati, richiedenti asilo e molti altri.
Di fronte a questa situazione il lato più forte è quello che ha la capacità di usare la nonviolenza per abbattere il regime razzista e il vortice di violenza. Di fronte alla compiacenza di molti israeliani, cerchiamo e scegliamo la nonviolenza, mentre gli altri preferiscono permettere al regime di ingiustizia di rimanere saldo al proprio posto, e aspettano soluzioni che in qualche modo fermino la spirale infinita di violenza – che mostra la sua faccia ora in questa nuova guerra contro Gaza – soltanto per avere nuove morti e appelli alla vendetta da ambo le parti e allontanando un possibile accordo sempre più lontano.
Le nostre mani grondano di sangue, e il nostro desiderio è quello di creare una lotta congiunta con qualsiasi palestinese che voglia unirsi a noi contro l’Occupazione, contro la violenza del nostro regime, contro il disprezzo dei diritti umani.
Questa sarà una lotta per mettere fine all’Occupazione, o con l’istituzione di uno Stato palestinese indipendente o attraverso la creazione di uno Stato unico in cui tutti saremo cittadini di pari diritti e dignità.
Le nostre mani sono piene di questo sangue. Affermandolo così forte nella nostra società saremo sempre accusati dalla propaganda nazionalista di essere unilaterali, e di condannare soltanto i crimini israeliani e non quelli commessi dai palestinesi.
A queste persone noi rispondiamo così: colui che sostiene o giustifica l’uccisione dei palestinesi, supporta e incoraggia di conseguenza anche l’uccisione degli israeliani ebrei. E viceversa. La giostra della violenza è grande e si muove velocemente, ma noi ci opponiamo ad essa, e crediamo che l’unica soluzione sia la nonviolenza.
Andare contro i metodi di Netanyahu non significa necessariamente sostenere Hamas: la realtà non è dicotomica. Altre opzioni esistono nell’asso tra questi due. Allora sottolineiamo ancora di più che siamo cittadini israeliani e il centro della nostra vita è Israele. Per questo la nostra più grande critica è rivolta alla società israeliana, che cerchiamo di cambiare.
Questi assassini si nascondono tra di noi, fanno parte di noi. Ci sono, ovviamente, spazi in cui si possono criticare anche le altre società. Ma crediamo, ciononostante, che il dovere di ogni persona sia di esaminare prima da vicino e in modo critico la propria società, e solo dopo si possa permettere di approcciarsi alle altre (…).
Le nostre mani grondano di questo sangue, e sappiamo che la maggior parte dei palestinesi innocenti uccisi negli ultimi 66 anni da noi israeliani ebrei non hanno mai ricevuto giustizia.
I loro assassini non sono stati arrestati, neanche processati, a differenza dei ragazzi sospettati per l’omicidio di Mohammed. La maggior parte di questi innocenti è morta per mano di uomini in uniforme mandati dal governo, dai militari, dalla polizia o dallo Shin Bet.
Questi omicidi, avvenuti per mezzo di aerei, artiglieria o di persona vengono definiti come “errori umani” o “problemi tecnici”. E quando ci si riferisce ad essi a volte si include soltanto una fiacca scusa. La maggior parte dei casi viene raramente posta sotto inchiesta e quasi tutti finiscono senza rinvii a giudizio, dissolvendosi nell’aria. Tanti, troppi sono ignorati dai media, dalle agenzie giudiziarie, dall’esercito.
La ragione per cui i sospettati della morte di Mohammed sono stati arrestati è semplice: non portavano un’uniforme.
Ad eccezione dei soldati condannati per il massacro di Kafr Qasam nel 1956 e rimasti in prigione per non più di un anno, raramente ci sono stati altri processi nelle Corti israeliane contro uomini dello Stato, anche per la maggior parte degli odiosi massacri a cui questa terra ha assistito.
Le nostre mani sono impregnate di quel sangue. Quando Benjamin Netanyahu esprime le sue condoglianze e condanna l’omicidio di Mohammed, lo fa con lo stesso respiro di sempre, comunicando una rivendicazione pericolosa e razzista sulla superiorità morale di Israele nei confronti dei suoi vicini.
“Non c’è posto per simili assassini nella nostra società. In questo noi ci distinguiamo dai nostri vicini. Nelle loro società questi assassini sono visti come eroi e hanno delle piazze dedicate ai loro nomi. Ma questa non è l’unica differenza. Noi perseguiamo coloro che incitano all’odio, mentre l’Autorità Palestinese, i loro media ufficiali e sistema educativo fanno appello alla distruzione di Israele”.
Netanyahu ha dimenticato che diverse persone sospettate di essere criminali di guerra hanno servito in vari governi israeliani, alcuni sotto la sua stessa leadership, e che il numero di persone innocenti assassinate negli ultimi 66 anni di conflitto dipinge un quadro molto diverso.
Quando guardiamo il numero di ebrei israeliani e di palestinesi uccisi, vediamo che il numero dei palestinesi è molto più elevato.
Netanyahu dimentica anche, o cerca di farci dimenticare, l’incitamento diffuso propagato dal suo governo nelle ultime settimane, e le sue parole di vendetta dopo la scoperta dei corpi dei tre ragazzi ebrei rapiti – Gilad Shaar, Naftali Fraenkel ed Eyal Yifrah – quando tutti noi eravamo in stato di profondo shock: “Satana non ha ancora inventato una vendetta per il sangue di un bambino, né per il sangue di questi ragazzi giovani e puri” (…).
Le nostre mani hanno sparso questo sangue, e invece di dichiarare giorni di digiuno, lutto e pentimento, il governo ha ora deciso di lanciare un’operazione militare a Gaza, che ha chiamato “Operazione Bordo Protettivo”.
Chiediamo al governo di fermare questa operazione subito e di lottare per una tregua e per un accordo di pace, a cui il governo israeliano si è sempre opposto negli ultimi anni.
Gaza è la storia di tutti noi; è anche l’oblio della nostra storia. E’ il posto più segnato dal dolore in Palestina e in Israele (…). Gaza è la nostra disperazione.
Le nostre origini comuni sembrano essere state spazzate via sempre più lontano: dopo 40 anni di possibilità di un compromesso storico doloroso tra i due movimenti nazionali, quello palestinese e quello sionista, questa opzione è gradualmente evaporata. Il conflitto viene reinterpretato in termini mitologici e teologici, in termini di vendetta, e tutto ciò che ora possiamo promettere ai nostri figli sono molte altre guerre per le generazioni a venire, nuove uccisioni tra entrambi i popoli, e la costruzione di un regime di apartheid che richiederà ancora più decenni per essere smantellato.
Le nostre mani hanno sparso questo sangue (…), cerchiamo di lavorare contro questa tendenza. Lo facciamo attraverso le varie comunità della nostra società: ebrei e palestinesi, arabi e israeliani, Mizrahi e Ashkenazi, tradizionalisti, religiosi, laici e ortodossi.
Abbiamo scelto di opporci ai muri, alle separazioni, alle espropriazioni e deportazioni, al razzismo e alla colonizzazione, per offrire un futuro comune come alternativa all’attuale stato depressivo, oppressivo e violento della nostra società.
Vogliamo costruire un avvenire che non si arrenda al ciclo di violenza e di vendetta, ma che al suo posto offra la giustizia, la riparazione, la pace e l’uguaglianza; un futuro che attinge agli elementi comuni della nostra cultura, umanità e tradizioni religiose in modo che le nostre mani non serviranno più a spargere sangue, ma a ricongiungerci l’uno con l’altro in pace, con l’aiuto di dio, Insha’Allah.
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Fonte italiana e nota di Osservatorio Iraq, Medioriente e Nordafricahttp://osservatorioiraq.it/
*Traduzione dall’ebraico all’inglese di Idit Arad e Matan Kaminer. La lettera, pubblicata originariamente sul sito Haokets, è stata pubblicata in inglese sul magazine israeliano +972mag , che ringraziamo per la gentile concessione. Al link originale la lista dei cittadini israeliani che hanno firmato la la lettera. La traduzione in italiano è a cura di Stefano Nanni e Anna Toro. La foto pubblicata è di Lia Tarachansky, e mostra una manifestazione anti-militarista a Tel Aviv nei giorni scorsi.
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